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Santi numi. Intervista a Jacopo Masini

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Jacopo Masini è un autorevole insegnante di scrittura creativa. Ha collaborato a lungo con la Scuola Holden e tiene corsi da oltre quindici anni.

Autore di libri come Polpette e altre storie brevissime e Ziofà Dialoghi sussenso della vita, le tipe e altre cose, porcoddue…

Si è spesso distinto come uno scrittore dallo spiccato senso dell’ironia, ma con Santi Numi, ultima raccolta di racconti edita da Exorma, Masini raggiunge un livello più alto, dissacrante e iconoclastico.

Operazione complessa quanto irriverente, in questa breve raccolta di vita dei santi, l’autore trasporta le storie – più o meno note – della tradizione cristiana nella pianura emiliana, tra gli anni settanta e ottanta, dove i beati diventano beoni, i saggi folli, gli asceti dei funamboli tra il miracolo e la sciagura.

È questo un libro più intelligente, che va oltre lo spasso. Una raccolta che si inserisce in una tradizione lunga di testi eruditi e di ricerca come La sinagoga degli iconoclasti di Rodolfo Wilcock; Storia universale dell’infamia di Borges e certi racconti di Moni Ovadia.

Mentre lo si legge, si finisce con il porsi molte domande che vanno oltre i racconti in senso stretto.

Per questo motivo, abbiamo pensato di rivolgerne alcune all’autore.

Pierangelo Consoli

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Come ti è venuto in mente di scrivere un libro come questo?

Allora, è un intreccio di cose. Per svariate ragioni mi piacciono le storie di santi e beati, le avventure dei profeti e di altri personaggi biblici e così, un giorno, ho pensato cosa penseremmo se le stesse cose accadute loro e raccontate nelle agiografie o nella Bibbia fossero accadute a persone comuni, più vicine a noi nel tempo. E ho pensato di scrivere un libro con l’andamento di una agiografia apocrifa, in un certo senso. È nato così.

Leggendolo ho pensato a testi come La sinagoga degli iconoclasti di Rodolfo Wilcock, o Storia universale dell’infamia di Borges, ha senso per te?

Direi di sì, specie nel caso di Borges, che è uno dei miei ‘falsari’ preferiti. Non sai mai se le sue ricostruzioni bibliografiche e letterarie siano vere o meno. Ma ci sono altri autori che mi hanno ispirato di più.

Se non a questi, a quali testi ti sei ispirato?

Ecco. Ad esempio ‘La scoperta dell’alfabeto’ di Luigi Malerba, Narratori delle pianure di Gianni Celati, Vite brevi di idioti di Ermanno Cavazzoni, ma anche La legenda aurea di Jacopo da Varagine, il Novellino e anche un po’ di Guareschi.

Mi sono chiesto diverse volte: perché hai ambientato i tuoi “Santi” nel decennio 70/80?

In realtà è il ventennio ‘70/’90 e me lo sono chiesto anche io. Credo dipenda dal fatto che sono anni che conosco bene, ma soprattutto sono in un certo senso pre-tecnologici, o meglio pre-digitali. Le leggende e le storie potevano circolare ancora senza che nessuno potesse riprenderle o fotografarle col cellulare. E senza gps ci si poteva ancora perdere. Finisce lì una civiltà e ne inizia un’altra.

Sei affezionato a quel periodo della tua vita in particolare?

Non credo. O meglio, sono gli anni della mia adolescenza, ma non dipende dall’affetto. È appunto la sensazione che lì sia finito qualcosa. Ad esempio, è caduto il Muro di Berlino.

Sei Cattolico? Qual è il tuo rapporto con la religione?

Non sono cattolico, lo sono stato per un breve periodo della mia vita, ma la nostra cultura è cristiana e cattolica. Lo è banalamente anche solo dal punto di vista iconografico. Con la religione ho un rapporto di grande curiosità e sono molto affascinato da tutte le storie che produce e racconta.

Sei cresciuto in una di quelle famiglie dove il credo non era in discussione?

Eccome. I miei nonni erano credenti, ma in grado diverso, i miei genitori direi di no. Quindi, ne abbiamo viste di tutti i colori, da questo punto di vista.

Come spieghi la necessità di rivisitare la vita dei santi e di portarli nel tuo mondo?

Molto semplicemente, credo che lo facciamo tutti, di continuo, e non ce ne accorgiamo. Siamo sempre, fin dall’infanzia, circondati da santi e dèi.

Racconti come il beato Antonio Cavicchi da Vigarano Mainarda, in cui si parla di un benefattore folle e irragionevole che prova ad imporre le proprie buone intenzioni fino a provocare reazioni violente nei suoi concittadini, mi hanno fatto riflettere sulla natura della vocazione religiosa. Credi che un eccesso di buone intenzioni possa generare una reazione uguale e contraria? Che la giustifichi persino?

Non so se la giustifichi, ma certo le buone intenzioni, vissute con fanatismo, si tramutano in pessimi comportamenti. A volte comici, altri tragici.

L’ascesi è una forma di follia?

Non credo, in assoluto. Anzi. Ma lo è stata certamente, se San Girolamo a un certo punto ha deciso di evirarsi per evitare le tentazioni.

Come nel caso del povero Sivelli, le voci che giungono dall’aldilà, hanno spesso un tono canzonatorio, irriverente, come mai?

Sei sicuro che giungano dall’aldilà?

Nella tradizione ebraica esiste una lunga tradizione di motti, storielle divertenti e molto intelligenti, persino, a tema religioso.

Assai meno nella tradizione cristiana, come te lo spieghi?

Perché gli ebrei, per tirare avanti mentre li perseguitavano in tutti i modi possibili, dovevano provare a tirarsi su il morale. Secondo me. È un allenamento secolare.

C’è chi la considera una forma di distacco persino perniciosa – in relazione, ovviamente, all’uso che spesso se ne fa – i tuoi racconti ne sono intrisi, cosa pensi dell’ironia?

Non so se nei miei racconti ci sia ironia. Forse una specie di comicità che fa leva sullo scollamento della realtà osservata in maniera comica, appunto. L’ironia è più sorniona e necessità di uno sguardo più canzonatorio, mi pare. La comicità si arrende alla stupidità che ci accomuna tutti.

Per chiudere, ho visto che giocavi da portiere. Qualcuno ha detto – mi pare Nereo Rocco – che da come uno gioca si può capire benissimo che uomo è. Tu che tipo di portiere eri? Uno di quelli spregiudicati che amava le uscite? Quello accorto che resta sempre sulla riga di porta o uno estroso, tipo Higuita?

Ah, che bella domanda. Ero un portiere agile, a cui piaceva tuffarsi e che ha imparato a misurarsi, con meno fronzoli. E giocavo bene anche coi piedi.

A questo punto, non ti chiederò lo scrittore preferito, ma il portiere preferito e perché?

Adoravo Jean Marie-Pfaff. Quindi, Pfaff.

Grazie.

Jacopo Masini, Santi Numi, Exorma, pag. 168, euro16

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