«Lasciamo dunque che gli attori vengano introdotti in modo placido; osserviamoli mentre si dedicano alle normali attività d’ogni giorno, non funestati da presentimento alcuno, contenti del mondo in cui vivono; e nella calma di questo ambiente, lasciamo che l’elemento sinistro faccia capolino, dapprima inavvertito e quindi con maggior virulenza, fino al possesso completo della scena». Questa ricetta per la costruzione di una buona ghost story, fornita da Montague Rodhes James nella sua prefazione all’antologia Ghosts and Marvels, non deve essere ignota a Stephen King, se è vero, come molti a ragione sostengono, che la parte migliore dei suoi romanzi va cercata nella fase iniziale, quella in cui si prepara il terreno all’azione, la quiete che anticipa la tempesta, quando l’elemento sinistro non si è ancora manifestato e nulla sembra accadere, a parte il banale fluire della vita quotidiana. Il suo ultimo romanzo, ottimamente tradotto da Wu Ming 1, presenta tuttavia una particolarità non da poco: non ha nulla a che vedere con l’orrore. Lo si potrebbe forse rubricare nella fantascienza, visto che si parla di viaggi nel tempo. Ma il modo in cui se ne parla, un modo più fantastico che scientifico, con marginali e fuligginosi accenni alla teoria delle stringe (peraltro già fuligginosa di suo), lo riconduce nell’alveo della ghost story, seppure di una natura molto speciale. Quale sia questo fantasma è indicato nel titolo: 22/11/’63. Una data nuda e cruda che non necessita di troppe spiegazioni, giacché evoca all’istante sia uno degli eventi più tragici della storia americana, sia le sue molte ricostruzioni, così come si sono succedute negli anni; le indagini, le speculazioni.Insomma, il fantasma è l’assassinio di John F. Kennedy e ciò che seguì: i complotti, le paranoie, il tramonto brusco di un’epoca e l’alba oscura di un’altra, il convincimento (probabilmente illusorio) che senza quell’infausto 22 novembre di Dallas, l’America avrebbe conosciuto un futuro migliore, fatto di minori tensioni e con meno scontri, meno morti, meno Vietnam.
Il nostro eroe, nonché voce narrante, ha per l’appunto in testa un obiettivo da nulla: impedire a Lee Harvey Oswald di mettere in atto il piano omicida. È infatti persuaso (come lo stesso Stephen King, peraltro) che l’attentatore abbia agito da sé, senza aiuti occulti, senza Cia, senza mafia. La strada che apre le porte alla missione impossibile è offerta da un varco temporale situato nella tavola calda di una cittadina del Maine: oltrepassandolo si finisce immancabilmente in un preciso momento, le 11:58 del 9 settembre 1958. Il varco presenta un’altra curiosa particolarità. Non importa quanto ci si trattenga nel passato: per coloro che restano nel presente saranno comunque trascorsi due minuti. Il che ha il vantaggio di consentire l’assenza dal proprio tempo per lunghi periodi senza che questo risulti mutato al ritorno. Va però messo in conto un inconveniente non da poco: se l’assenza si protrae per anni (i cinque anni che separano il 1958 dai fatti di Dallas, per esempio) ci si ritrova più vecchi dei propri affetti. Senza considerare le mille cose che possono capitare nel frattempo. Tanto per dirne una, ci si può ammalare, che è per l’appunto quanto succede al proprietario della tavola calda, un certo Al, il quale si ritrova con un tumore ai polmoni nel bel mezzo della missione impossibile. Non gli resta, perciò, che tornare nel presente e passare le consegne a una persona affidabile nonché in grado di riuscire nell’impresa: un uomo giovane, integro e sufficientemente libero da legami ovvero abbastanza insoddisfatto del proprio presente da poterlo lasciare senza rimpianti. Ecco dunque il nostro eroe, Jake, insegnante, niente figli, un matrimonio fallito con una donna alcolista che gli rinfacciava di non saper piangere. Jake si lascia convincere e non soltanto perché non ha molto da perdere. Si lascia convincere perché malgrado non sia incline alle lacrime, non ha affatto un cuore di pietra. E qui l’abilità narrativa di King si mostra in tutto il suo splendore. Gli bastano infatti un paio di pagine per farci leggere nell’anima di Jake, per indurci a stare irriducibilmente dalla sua parte, per riconoscervi a colpo sicuro il nostro eroe. Un’altra ventina di pagine appena e il lettore precipita insieme al suo eroe nella «buca del coniglio» (questo il significativo nomignolo affibbiato da Al al varco nascosto nella tavola calda). Insomma, la lettura è appena iniziata, altre settecento e più pagine ci attendono, ma noi, come Alice, siamo già catapultati in un autentico paese delle meraviglie, anche se al posto di lepri marzoline e cappellai matti troviamo un museo storico vivente, canzoni d’altri tempi, auto d’epoca, diversi tagli di capelli, dialetti non ancora annacquati dalla lingua neutra della televisione. Del resto, che King conosca il mestiere è acclarato. Piuttosto, andrebbe rifiutata l’opinione diffusa per cui sarebbe un gran romanziere ma non un scrittore, quasi che il saper narrare in sé sia niente altro che una volgare arte da imbonitori. Il problema, se mai, è un altro, esemplificato dalle seguenti parole del nostro eroe: «Una piccola città, uno di quei paeselli fuori dalle strade principali di cui non importa nulla a nessuno, a parte quelli che ci vivono. E va bene così, perché è a loro che deve importare». Questa America delle piccole cose e dei buoni sentimenti costituisce uno scenario perfetto quando l’elemento sinistro è un’entità soprannaturale. Quando invece il male ha connotati sin troppo umani qualcosa stride.
In 22/11/’63, la parte migliore di King, la fase preparatoria, consiste nel lungo periodo di adattamento, gli anni in cui Jake si rifà una vita nel passato, il suo ambientarsi in un mondo che non c’è più, il prendere confidenza con una società affumicata dalle sigarette, dove le donne sono pezze da piedi e i neri ancora negri. In questa fase, che prende più di metà del romanzo, impedire l’assassinio di Kennedy appare un’incombenza lontana, estranea a questa America delle piccole cose tanto mirabilmente ricostruita. Talmente estranea che, al momento di entrare concretamente in scena, Oswald è ormai un intruso, un ospite sgradito di una storia ai margini della grande Storia. E pensare che sarebbe anch’egli un piccolo uomo. In Libra, romanzo che fatalmente torna alla memoria, DeLillo lo descriveva come la pedina inconsapevole di un disegno più grande di lui. Lì non poteva certo aspirare a diventare il nostro eroe, ma restava comunque una persona la cui vita, per quanto sbagliata (o forse proprio perché sbagliata) esigeva di essere capita. Qui, invece, è il personaggio meno credibile nonostante sia il più reale di tutti. Ma soprattutto: è quello che meno ci interessa. Difficile dire quanto lo stridore, l’incompatibilità di Oswald con un mondo ricostruito siano voluti. In parte, di sicuro lo sono, perché il piccolo mondo americano, il passato fittizio alla Madmen, è davvero la parte più riuscita, quella da cui mai vorremmo essere distratti. Ma tant’è, Oswald ci distrae. Egli è la grande Storia che ci sottrae a una storia che ci eravamo abituati a considerare nostra. Ci sottrae alla fase preparatoria e come capita in amore, consumato l’atto, si finisce per preferire e rimpiangere i preliminari. E dire che il finale del romanzo è da vero maestro. Ma forse ha ragione King: non si può vivere di eterni corteggiamenti.