Dall’inizio degli anni Ottanta in poi, già semplicemente evocare il loro nome, insieme a quello di pochi altri gruppi (Manowar e Judas Priest su tutti), rappresenta, senza troppi giri di parole, una professione di fede: dici Iron Maiden, infatti, e dici heavy metal. Non soltanto inteso come un genere musicale da ascoltare, ma come uno stile di vita le cui regole non devono essere mai trasgredite o aggirate.
Quando un disco o un live di Steve Harris e soci è alle porte, ogni singolo fan sparso in ogni angolo del mondo sa perfettamente cosa dovrà aspettarsi: ritmi tellurici, chitarre fragorose e armonizzate tra loro, testi a memoria, lunghe, epiche cavalcate guidate da una linea di basso arrembante sulle quali scatenarsi in headbanging furiosi all’interno della propria cameretta o in uno stadio da ennemila posti. E sa che il suo unico compito sarà quello di rinnovare la promessa di adesione al culto della “Vergine di Ferro” abbandonandosi a un rito collaudato, impermeabile ai cambiamenti e alle mode imposte dal music business.
Ma gli Iron Maiden, come è lecito aspettarsi da una band sulla breccia da ormai quarantacinque lunghi anni, sono anche il risultato di una loro personalissima storia che va conosciuta e approfondita se si vuol arrivare a comprendere la longevità della loro formula e l’amore incondizionato che gli professano ormai tre diverse generazioni di “defenders of the faith”. Non fosse altro per capire come un progetto che sembrava essere nato in un’epoca sbagliata (quella del punk inglese), si sia trasformato in un fenomeno non soltanto musicale, ma sociale e di costume, dando origine a quello che certi spietati e razionalissimi analisti potrebbero arrivare a considerare addirittura una sorta di brand oltre ce un gruppo.
Ecco allora giungere in soccorso questo provvidenziale dittico che prende il titolo, rispettivamente, da una delle canzoni e da uno degli ellepì più amati dei Maiden: REVELATIONS. Gli Iron Maiden dalle origini a Seventh son (Tsunami Edizioni, 2019, pp. 256, € 22) e FEAR OF THE DARK. Gli Iron Maiden negli anni Novanta (Tsunami Edizioni, 2020, pp. 238, € 22). A firmarlo non è uno qualunque, bensì colui che per acclamazione popolare viene da anni considerato come il più famoso giornalista heavy metal vivente, Martin Popoff, il quale dopo aver riempito per anni le pagine di molte famose riviste del settore con le sue recensioni e dopo aver griffato una cinquantina di opere sempre a tema, ci regala questa doppia “bibbia” dedicata agli autori di The Trooper e The number of the beast.
Ed è davvero un gran regalo, perché l’approccio strutturale di entrambe le opere si caratterizza per un intento analitico di partenza per nulla banale: non limitarsi al semplice resoconto diacronico e degli episodi salienti che hanno segnato la carriera del combo inglese, ma entrare nello specifico più minuzioso della loro produzione discografica (perlomeno fino alla fine degli anni Novanta), indagando la genesi, la struttura e il significato di ogni singolo pezzo pubblicato da Harris & soci. Un lavoro, come sarà facile da immaginare, molto ponderoso perché presuppone non già la sola, mera compilazione-stratificazione di notizie e aneddoti, ma implica una conoscenza a dir poco lenticolare dell’intera discografia del gruppo, oltre che una sicurezza nei propri mezzi di valutazione e giudizio non indifferente. Ecco quindi che il primo quarto di secolo di attività della Vergine di Ferro si trasforma, conseguentemente, non soltanto in una biografia “classica” come siamo abituati ad intendere, ma in una puntualissima retrospettiva saggistica attraverso al quale penetrare nei meandri più nascosti della band. Ad arricchire il tutto, poi, un apparato integrativo di interviste (tutte interne alla narrazione e non in fastidiose appendici) a dir poco corposo, che non coinvolge soltanto i vari membri che nel corso del tempo si sono succeduti nelle varie line up, ma include anche una serie di testimonianze e di pareri più o meno “tecnici” espressi sui Maiden da importanti colleghi e addetti ai lavori.
Quel che ne viene fuori, dunque, è una coppia di libri davvero molto preziosa, all’interno della quale il fan più devoto ma anche quello meno scafato si potranno divertire a testare la propria passione-preparazione sulla storia del gruppo, ma anche ad ingrandire a dismisura il loro bagaglio di conoscenza a livello di minuzie. Inoltre, in Fear of the dark, per ammissione dello stesso Popoff -che, è bene sottolinearlo, nonostante sia egli stesso un grande estimatore dei Maiden, non lesina certo critiche quando non si dimostra convinto da certe canzoni- si presta una particolare attenzione anche alla carriera solista di Bruce Dickinson, secondo, amatissimo cantante storico della band, nei confronti del quale l’autore sembra mostrare una particolare predilezione.
Data la natura sequenziale e molto interconnessa delle due opere, e data la particolare tipologia di approccio critico utilizzato, si consiglia l’acquisto d’entrambi. Con la consapevolezza (quasi certezza, a dar retta a quanto scrive Popoff) che molto presto il cerchio potrebbe essere chiuso in una classica trilogia, con un ulteriore volume a gettar luce sul periodo che va dagli anni Duemila fino ai nostri giorni.
Up the Irons!
Domenico Paris