Ernesto Bassignano, nato a Roma il 4 aprile 1946 da una famiglia di origini piemontesi, è un cantautore, giornalista e conduttore radiofonico italiano. Cresciuto a Cuneo, torna a Roma dopo gli studi liceali. Sin da adolescente impara a suonare la chitarra e inizia a comporre le sue prime canzoni, avvicinandosi alla canzone politica influenzato da artisti come Fausto Amodei e i Cantacronache.
Tra il 1966 e il 1968 partecipa al Teatro Politico di Strada insieme a Edmonda Aldini e Gian Maria Volonté. Nel 1969 entra nel Folkstudio di Roma, dove incontra altri giovani cantautori come Francesco De Gregori, Antonello Venditti e Giorgio Lo Cascio. Con questi ultimi forma nel 1971 il gruppo “I giovani del folk”.
Parallelamente all’attività musicale, Bassignano si impegna nel settore stampa e propaganda del Partito Comunista Italiano. Nel 1972 pubblica un EP e un 45 giri, collaborando con Francesco De Gregori. Il suo album di debutto, “Ma…”, esce nel 1973 per la Ariston, seguito da “Moby Dick” nel 1975 per la RCA Italiana, caratterizzati entrambi da tematiche politiche e sociali.
Negli anni successivi lavora come produttore discografico per l’etichetta It, contribuendo al lancio di artisti come Sergio Caputo. Diventa anche critico musicale per “Paese Sera” e conduce numerosi programmi radiofonici per la Rai, tra cui “Ho perso il trend” su Radio Uno dal 1999 al 2011 insieme a Ezio Luzzi.
Continua la sua carriera di cantautore pubblicando album come “D’Essai”, “Bassingher” e “La luna e i falò”, collaborando nuovamente con De Gregori. Dal 2011 conduce programmi su Radio Città Futura, come “Radio bax, nel paese degli struzzi” e “Rodeo” con Pierluigi Siciliani. Nel 2016 ripubblica il suo romanzo autobiografico Canzoni, pennelli, bandiere e supplì, raccontando le sue esperienze nel mondo della musica e dell’arte.
Di seguito pubblichiamo l’intervista rilasciata a Satisfiction.
Carlo Tortarolo
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Ernesto Bassignano, sei stato un cantautore di stile e sei entrato a far parte de I giovani del folk con Venditti e De Gregori come mai loro sono diventati super popolari e tu sei rimasto di nicchia? Puoi raccontarci come queste collaborazioni abbiano influenzato la tua musica e quali ricordi particolarmente significativi hai di quel periodo?
Me lo chiedono per farmi incazzare da mezzo secolo. Qualche volta spiego che ho dirazzato nel ‘72 per diventare cantautore di lotta militante e rovinarmi la carriera diventando un quasi funzionario del PCI e poi giornalista e critico musicale di Paese Sera. Altre volte, se capisco che mi stanno perculando..faccio rima e ..ce li mando ah ah! Sono stati i miei anni ruggenti, quelli in Via Garibaldi alle falde del Gianicolo. Con Venditti, De Gregori e Locascio abbiamo formato un gruppo formidabile. io scuola genovese, Antonello pop romanesco, totalmente “dylaniato” il folk di Francesco e di Giorgio…tutte le sere per tremila lire e qualche rara puntata fuori Roma..( il piano non c’era mai e dovevamo manovrare 3 chitarre tra le bestemmie di Antonello). Poi i due fanno “Theorius Campus” da soli, proseguono alla grande con la RCA mentre io mi lancio definitivamente nel mercato delle feste estive scrivendo canzoni sempre più politiche. Il gruppo si scioglie…ci si vede ogni tanto ma…sono ormai strade diverse.. Lasciamo comunque il Folkstudio perché’ ormai lavoriamo dappertutto e in Via Garibaldi ci si ritrova ogni anno ad ottobre per una rimpatriata.
Sei stato fortemente influenzato dalla canzone politica e dai cantautori come Fausto Amodei e i Cantacronache durante i tuoi anni formativi. In che modo queste influenze hanno plasmato la tua visione artistica e il tuo impegno politico nella musica, e come hai visto evolversi questo rapporto nel corso della tua carriera?
Beh…non facevo proprio parte del Nuovo Canzoniere Italiano con Pietrangeli, Marini, Della Mea e Amodei…facevo tutto direttamente per conto delle Botteghe Oscure…I nomi che hai citato li trovavo uno ad uno nel Fol Festival del Folkstudio. Ma certo Fausto Ivan Giovanna Paolo e Bertelli mi hanno influenzato parecchio. Purtroppo. Purtroppo, perché’ all’inizio ero un “tenchiano” di scuola genovese molto poetico, poi, innamoratomi ahimè del PCI…di colpo diventai un Agit-Prop parecchio demagogico e folk. Ma andava di moda così in un certo ambito e lo confesso. La cosa mi fece guadagnare un sacco di soldi. Cantavo tutte le sere dappertutto a 250 mila lire a botta. In quegli anni erano una somma.. Quando nel ‘77 la festa è finita. Ho dovuto inventarmi giornalista per sopravvivere. Berlinguer in Direzione mi aveva pure avvertito: “Ernesto… occhio…in Italia i “Soviet” non verranno…stai passando di moda…finisce una stagione.. ora-se non è troppo tardi-pensa alla tua vita”.. rimasi basito. Faticai a capire. Quando capii…cominciai col giornalismo.
Hai scritto l’inno del partito Comunista, Veniamo da lontano, come ti ricordi questa esperienza?
Due o tre anni di successo…”Veniamo da lontano” la cantavano tutti..la si studiava nelle scuole di partito. Ma poi…il disastro! Nel 77/78 tutto finì brutalmente. Feste a pagamento e non più militanti a sottoscrizione. Biglietti cari e Dalla, Bennato, ma anche Cocciante al mio posto. Fine della canzone di lotta e PCI che diventa impresario di spettacolo con l’Arci.
Facciamo un gioco, se avessi potuto scriverlo come volevi tu l’inno come lo avresti scritto? Fammi almeno una strofa e un ritornello.
No. Domanda assurda perché’ in quel momento, per dare addosso a “Contessa” di Paolo Pietrangeli considerata in Direzione troppo “gruppettara” (come diceva Pajetta)..serviva proprio una puttanata “sdraiata sulla linea” con frasi come slogans da prima pagina de L’Unità…
Chi era per te Berlinguer, lo hai conosciuto bene? Cosa ti ricordi di lui?
Lo ricordo bene anche se dal vivo l’ho visto solo a metà dei 70 nel momento del massimo avanzare del PCI. Qualche volta veniva dopo un voto insieme a tutti, entusiasta per l’andamento dello spoglio. E mangiava anche lui le rosette con la mortadella che Cervetti e Tatò distribuivano. Una giornata molto bella fu quando salimmo insieme sui colli romani dal 70% di voti comunisti e a Genzano, insieme al mitico sindaco Cesaroni, ci affacciammo da un balconcino per salutare la folla lungo la scalinata dell’Infiorata. Quella volta accennò con me qualche pezzetto del mio inno, battendo le mani..
Tra i tanti lavori svolti qual è il progetto che ti ha più appassionato?
Beh..i dieci anni del mio programma su Radiouno “Hopersoiltrend’ in compagnia di Ezio Luzzi. Son stati certo quelli più entusiasmanti. Il direttore Paolo Ruffini mi recuperò da una redazione e mi propose, conoscendo la mia storia di artista poliedrico, di inventare tra le news. Un programma ironico e satirico sull’attualità. Fu una grande scommessa vinta. Passammo pian piano dai 120000 ascoltatori ai 400000 degli ultimi tempi. Fummo insomma campioni d’ ascolto e io mi divertii parecchio. Certo..mollai un po’ troppo la mia canzone d’autore sconcertando i vecchi fan musicali ma..divenni anche molto popolare. Non ho sfruttato quel successo e ho fatto male. Del “trend” e’ rimasta solo molta nostalgia un po’ dappertutto. Nel 2011 la Rai mi ha pensionato per punirmi di aver perculato troppo il mondo berlusconiano e io ho ripreso in mano la vecchia chitarra sparandomi un album all’ anno con molta soddisfazione mia e degli amici musicofili. Oggi sono al 13° Lp, ivi compreso il doppio con il mio lavoro di autore letterario per Bindi.
Pier Paolo Pasolini, Gian Maria Volontè e Carmelo Bene -come fonte sulle frequentazioni culturali del Pc romano prendo l’ultimo libro di Goffredo Bettini Attraversamenti– li hai conosciuti? Cosa hanno rappresentato per te? Mi puoi raccontare qualche episodio con loro?
Bene e Pasolini li ho solo sfiorati. Con il grande Gianmaria ho vissuto tre anni giganteschi recitando per lui nel nostro ormai mitico Teatro di strada: un modo di fare controinformazione per strade e piazze sui vari problemi sociali e politici che dal ‘69 al ‘71 si presentarono in Italia e all’estero. Erano gli anni de “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto” e “La classe operaia va in paradiso” di Petri. Poi Volontè ci mollò travolto dal successo e il gruppo si sciolse. Fu ripreso per un po’ dalla Maraini e da Goffredo Bettini ma gli anni di piombo del terrorismo spazzarono via tutti gli esperimenti sessantotteschi.
È vero che hai scoperto tu Rino Gaetano?
No. L’ho solo aiutato ai tempi del secondo Folkstudio quando la domenica il boss Cesaroni mi aveva affidato il compito di scegliere tra i nuovi giovani quelli più interessanti da mettere in scena anche la sera. E dunque quando mi si presentò lo buttai sul palco nonostante che il capo non lo apprezzasse granché’. Mi cantò del ferroviere calabrese Agapito Malteni e di un suo amico morto in un incidente d’auto (sic). Poco tempo dopo, insieme al maestro Gaio Chiocchio, perorammo la sua causa presso il manager della IT Dischi Micocci. Erano i giorni in cui scrisse “Il cielo è sempre più blu” . Micocci ci diede retta e dopo un mese il singolo era a 45.000 copie. Diventammo amici, lo portai con me a fare un po’ di lire con le Feste e amici restammo sino agli ultimi suoi giorni. Era diventato triste e problematico. Non era più lui…il successo si era allontanato. Mi faceva tenerezza. Si perse. E fu la fine. Oggi è un mito. Al suo funerale eravamo una trentina.
Ha lavorato per anni come critico musicale per Paese Sera, quali sono i ricordi migliori di quegli anni?
10 anni a Paese Sera, dall’80 sino al ‘90 allorché’ anche gli ultimi tentativi di tenerlo in piedi sfumarono perché’ la Repubblica gli aveva tolto l’aria. Scrissi tra gli altri il primo articolo per Mara Venier, per Bergonzoni, per Ligabue. Aiutai per anni tutti coloro che mi parevano cantanti e attori interessanti. Continuai insomma inesausto il mio compito di talent-scout curioso. Mi feci anche purtroppo molti nemici recensendo e magari criticando, o non incensando, dischi di colleghi amici. Ma io son fatto così…onesto…incapace di tacere ciò che penso. Oggi un po’ me ne son pentito…
Ti sei mai pentito di qualcosa?
Ecco, appunto. Non faccio nomi, ma non avrei mai dovuto stare da una parte del tavolo e pure dall’altra contemporaneamente. Pericoloso, troppo pericoloso! Molti divennero famosi e potenti e molti poi si sono vendicati del loro collega ingombrante.
Ma è vero quel che si dice che esistesse un’orchestra di critici rossi che ha mandato nel Gulag la cultura cinematografica e musicale che non era allineata con il partito, tipo Ciccio e Franco, Lando Buzzanca, Bruno Lauzi, i sanremesi non trasgressivi o del cantautorato. O lo stesso Edoardo Bennato, Totò prima di Uccellacci e uccellini o Mario Riva?
No. La Spectre rossa non esisteva. Esisteva piuttosto un gruppo di giornalisti quasi tutti dell’Unità che, forti dell’egemonia culturale della sinistra, si muoveva come un carrarmato con la faccia di Stalin. Non dimenticare che il giornale vendeva centinaia di migliaia di copie e le grandi firme erano tutte là… la terza pagina straordinaria pareva dettare modi mode e intenzioni per tutti.
Non mi dire che di questo direttorio ne facevi parte anche tu… E se sì chi erano gli altri (almeno i principali)?
Assolutamente no. Ero schierato ma sempre molto più aperto e liberal dei miei capi…certe volte essi davano del “gruppettaro” pure a me…pensi…
È vero che negli anni ’70 ti minacciavano di morte?
Purtroppo, se non di morte, di gambizzazione si. Fu il periodo in cui caddi in depressione e da “sempreallegro” mi feci triste e pessimista. Per gli autonomi e Potere Operaio, essendo un famoso comunista contrarissimo all’estremismo e alla lotta armata…ero un nemico! A Roma diressi anche un’emittente libera che, nei giorni di Radio Alice, si schierò duramente contro il caos e la vera e propria guerra civile che lasciava morti nelle strade. E fu allora che entrai nel mirino dei terroristi…mi chiamavano di notte per terrorizzarmi…avevo paura a tornare a casa la sera. Messaggio sull’auto…minacce per strada da parte di alcuni collettivi…mi pareva surreale.
Chi è per te Edoardo Bennato?
È un bravo cantautore senza mai bandiere o scuole. Un isolato che ha detto e fatto da solo per i fatti suoi non scoprendo musicalità particolari ma scrivendo belle canzoni. Un rocchettaro acustico che, con la sua strana voce, armonica e Kasù…ha creato una maniera colta e popolare italianissima di raccontare. La mia sinistra a metà dei ‘70 s’ incazzò mica poco quando sfotte’ coraggiosamente la canzone impegnata e gli impegnati dichiarando urbi et orbi trattarsi di “solo canzonette” e che a lui non andava proprio di prendersi sul serio.
Dopo aver avuto una solida carriera come cantautore, sei passato anche al giornalismo e alla conduzione radiofonica, creando programmi di successo come ‘Ho perso il trend’ e ‘Radio bax’. Come hai gestito questa transizione tra diverse forme di espressione artistica e comunicativa, e in che modo queste esperienze hanno arricchito la tua creatività e il tuo approccio alla musica?
Naturalmente. Per carattere, per curiosità, per voglia di arrivare a tutti con le mie idee i miei pensieri e i miei amori. Il mio pregio e il mio difetto. In Italia non puoi farlo senza rischiare. Ti vogliono carrierista a tutti i costi. Ti vogliono situato in uno stesso ambito a vita, spingendo e dando schiaffi e spintoni sino ad arrivare all’apice. Io invece ho voluto sperimentare sempre e divertirmi, provare di tutto e giocare con note, parole, pensieri e ideali..
Che cos’è la musica per te? Che cosa avresti voluto fare di più e in quale cosa ti senti di esserti perso?
La musica, le matite, i pennelli, la politica. Tutto mescolato a caso. Il mio libro autobiografico “Canzoni pennelli bandiere e supplì”, che spero abbiate letto o leggerete, è appunto la storia di uno sradicato piemontese a Roma (o un romano a Cuneo) che si cerca in una continua Bohème, in un tourbillon di amori interessi amicizie litigate incomprensioni lotte. È andata bene così. Tra non molto avrò raggiunto gli 80 anni senza smettere mai un giorno di sognare un mondo migliore senza razze odii e guerre. Forse inutilmente. Ma ci ho provato.
Cosa vorresti fare ancora? Hai progetti in cantiere?
Si. Un docu sulla mia vitaccia folle che è già pronto e cercherò di farvi vedere e un nuovo libro fatto di aneddoti e ritratti delle decine di personaggi celebri incontrati.
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Foto di Ernesto Bassignano Con la sciarpa rossa di Fellini al collo messa dal grande fotografo Pino Settanni che la ereditò