Giusto prima di trasferirsi con la sorella postelegrafonica da Milano a Roma, a inizio estate 1961 Anna Maria Ortese aveva firmato con Paolo Lecaldano della Rizzoli un contratto per il suo primo romanzo, Poveri e semplici (uscirà nel 1967, da Vallecchi), ma il 12 giugno 1962 è già in ritardo, se gli scrive:
“La prego con tutta l’anima di concedermi ancora questa estate. Il più è fatto: ora mi rimane un lavoro di pazienza, d’intelligenza, un lavoro che domanda solo un po’ di serenità. E a ottobre, con la nuova stagione, la più felice per un libro, il romanzo potrà essere in vendita”.
Il lavoro però richiedeva condizioni di vita decenti, ossia un ulteriore trasferimento. Così dieci giorni dopo Anna Maria si rivolge a Giovanni Comisso, che aveva conosciuto alla redazione de Il Mondo:
“Quando La rividi, a Roma, mesi fa, fui tanto contenta, mi parve un po’ come un premio, e per giorni e giorni ripensai a quell’incontro come a un grande avvenimento. E tutto questo perché Lei è buono, si capisce, non è solo uno scrittore pieno d’incanti, ma un amico per tutti, anche per quelli che sono quasi invisibili”. Dopodiché gli chiede una raccomandazione per un trasferimento della sorella alle poste di Genova, e motiva: “Sembra perfino assurdo! Ma se sapesse, caro Comisso, che tragedia, per quelli che sono nati nel posto sbagliato, è trovare una città che vada bene; che tipo d’angoscia! Il sud è per noi come un vestito dell’infanzia, caro, ma impossibile da portare più. L’oltre Po ha un clima che richiede, per viverci, una condizione almeno agiata (ma era il mondo che amavamo di più). L’Italia Centrale è organizzata per famiglie di tipo tradizionale. E insomma, mi sembra che solo a Genova si possa vivere senza affanno, forse perché c’è il mare e la gente è abbastanza riservata. Lì si può sparire, credo, senza però perdersi”. Invece Roma… “Il clima africano, senza mai ristoro di piogge o di acque o alberi; la popolazione ch’è quella che tutti sanno, una mistura di opacità e di violenza, che ogni giorno cresce e vi assedia. Per quanto si vada ad abitare su strade lontane, c’è sempre gente che vi ha preceduti, con le radio, le macchine, le canzoni; lo spazio e il silenzio sono considerati un gran lusso, non ce n’è che per i bottegai ricchi, che non gli serve. Io, da un anno, perché non si può concedersi un alloggio normale, dati i costi, vivo con mia sorella in una stanza e mezzo, e la camera-studio l’ho creata in cucina. Quattro metri quadrati, su una terrazza che brucia, questa è la mia stanza. D’inverno poteva andare, ma ora che viene il caldo romano, mi sembra che non potrò sopravvivere. Non posso uscire, perché fuori è peggio, e poi ci sono le macchine che mi atterriscono, e in casa mi sembra di svenire continuamente. Così sto ferma, e cerco di respirare e muovermi il meno possibile. Come potrò arrivare ad ottobre, così? Devo anche lavorare, finire il mio libro”. Comisso mobilita subito l’amica scrittrice Laura Di Falco, e dal primo agosto le sorelle sono a Genova, quartiere Sampierdarena. Come abbiano passato l’estate, si desume dalla lettera di Anna Maria del 6 ottobre 1962, che parte coi ringraziamenti, ma passa tosto alle doléances: “non solo mi faceva molta compassione mia sorella, costretta a lavorare in un modo infame per il sovraccarico di lavoro, spaventata, triste; ma in casa, per via del rumore delle strade, non si poteva lavorare, e io dovevo finire ancora la seconda parte del mio libro per Rizzoli”. E questo è niente. A fine settembre la Corte dei Conti invalida alla sorella l’avanzamento di grado: “È come aver regalato una bella cosa a un bambino povero, e poi avergliela strappata di mano, senza neppure guardarlo. Mia sorella, a causa di questo fatto, come di altri, la fatica, le preoccupazioni, le ansie per me, è diventata assai più piccola del normale, non ha più colore in faccia”. Il bilancio: “È stata una estate penosissima, e strana. D’estate, la pietà, che anche d’inverno è poca, se ne va completamente dal mondo. La natura non capisce più niente, e gli uomini con essa. Non c’è che ascoltare la televisione, la pubblicità, leggere sui giornali grandi storie di gente vistosissima, inutile”. E il proposito obbligato è di tornare a Roma, senonché… In quel preciso istante giunge la sorella ad annunciare che dal primo novembre “avrà un bell’ufficio in centro, e poco lavoro. E gli occhi le brillavano al pensiero che sì, va bene, non vedrà più tanto sole e quelle squisite mozzarelle di Roma, però avrà sempre, intorno, i Genovesi”.
Così la lettera si conclude con un peana agli stessi:
“Se sapesse quanto sono buoni, miti, anche gli scaricanti di porto, e pronti all’aiuto. Un giorno dovrò scrivere a lungo di questa gente, che sembrano angeli impolverati. La città è spesso assai trascurata, il vento, quando c’è, solleva tutta la spazzatura del mondo, non c’è cultura, ecc., ma questi uomini e donne non smettono un minuto di essere lieti, candidi, contenti, tutto il contrario dei Romani, e c’è una grande freschezza d’animo, o ingenuità, e non possono veder soffrire la gente. Vi salutano ad ogni momento, sorrisi di qua, sorrisi di là, informazioni non richieste, sempre con tanto d’orecchi e tanto d’occhi. Da vergognarsene, quasi, tanto ci si è poco abituati. Così, allora, si rimarrà a Genova. Troveremo un’altra casa. Stamattina ero molto infelice, per non dire disperata, pensando che dovevo rimettermi in treno”. Cinque giorni dopo le sorelle sono già a Roma, e un mese dopo Anna Maria scrive a Lecaldano che del romanzo purtroppo non ha scritto una riga.