Il mutamento profondo e radicale che sta attraversando la poesia contemporanea, facendola rinascere come arte dell’orecchio, avrà indubbiamente più difficoltà ad essere recepito, compreso ed accettato se, accanto ai poeti, non saranno presenti i critici e gli storici. Come ho già avuto modo di sostenere sul Verri, il problema è, però, di categorie analitiche che mancano: i critici sono soprattutto, se non esclusivamente, critici letterari, tendono, cioè, a ignorare ciò che non è testo muto, tagliando fuori l’aspetto orale, performativo ed, eventualmente musicale, che pure è evidentemente parte formalmente decisiva in tutta la poesia orale e nella spoken music. Ci manca, allo stato, una ‘critica poetica’, capace di dare conto dell’esperienza poetica in tutta la sua globale ‘concretezza’ e multimedialità. Come ho sottolineato in un lungo scritto, appena apparso su ‘in pensiero’, Per una poesia ben temperata, la poesia è l’unica arte ad aver mutato, nel tempo, il suo medium di ricezione: dall’orecchio all’occhio, ed oggi, sempre più, di nuovo all’orecchio. L’importanza di questa caratteristica della poesia, questa sua connaturata ‘transmedialità’, è tanto grande, quanto usualmente ignorata da critici e storici della letteratura.
Da qualche tempo, però, alcuni studiosi stanno intraprendendo un cammino nuovo, capace di confrontarsi anche con l’aspetto non strettamente ‘testuale’ della poesia: penso a Gabriele Frasca (che, non a caso, è anche poeta), a Stefano La Via (musicologo) a Paolo Giovannetti, Marianna Marrucci, o Daniele Barbieri. Le loro analisi sono preziose per poter ricostruire un quadro analitico abbastanza chiaro dei fenomeni artistici in corso.
Recentemente proprio Barbieri ha voluto analizzare la mia Piccola cucina cannibale, nel suo blog. Pur concordando con molte delle sue analisi, in questo caso mi pare, però, che Barbieri sia caduto in due luoghi comuni, o, se si preferisce, in due riflessi condizionati che sempre fanno capolino quando si parla di spoken music, di poesia con musica insomma. Il primo tende a riportare ogni esperienza del genere a quella del Melodramma. Ora, come Barbieri stesso dice nel suo intervento, è precisamente quello il momento in cui, a causa dell’avvento della musica tonale, divisa in ‘frasi’, la parola diventa schiettamente ancillare alla musica: dai poeti si passa, insomma, ai librettisti. Non credo che sia quello il punto di riferimento delle esperienze attuali di spoken music, che si basano esattamente sulla non ancillarità della poesia nei confronti della musica, ma anzi su un loro ‘temperamento’ (accordo), in cui ritmi e melodie nascano essi stessi dalla parola e dalla sue intrinseche caratteristiche musicali. Meglio sarebbe guardare alla tradizione del Madrigale (che si cimentò persino con il Petrarca), o a tutte le esperienze ‘non tonali’ di accordo tra musica e parola, a partire dai Trovatori, per finire al Rap, o a certa musica contemporanea di ricerca. L’altro luogo comune è quello per il quale chi fa spoken music, spoken word, o comunque poesia orale, voglia negare ogni valore alle esperienze scritte, e così, Barbieri, dopo aver apprezzato il mio lavoro, mi chiede, però ,di lasciar spazio anche alla poesia ‘tradizionale’ quella scritta su foglio. «Insomma, Lello, vai avanti, che la strada è interessante. Però permetterci di vedere le differenze, e di salvare non solo la tradizione orale, ma anche quella scritta, più vicina a noi e a quello che immaginiamo, quotidianamente, quando diciamo poesia.» Ora, pur comprendendo bene quale sia il suo timore, non solo vorrei rassicurarlo al proposito, ma anche sottolineare come in realtà le cose stiano esattamente all’opposto di quanto paventa Barbieri: sono quelli che io chiamo ‘poeti muti’, che, con sussiego degno di miglior scopo, si ostinano quotidianamente a negare ogni valore alla poesia orale, facendo di tutto per escluderla da ogni contesto in cui essa possa eventualmente trovare spazio. Non certamente il contrario.
Dunque, caro Daniele, stai tranquillo: per quanto mi riguarda non mi viene nemmeno in mente di negare il valore di Montale, Celan, Zanzotto, ma tu non potresti darmi una mano a convincere certi signori che anche Majakovsky, Dylan Thomas, Linton Kwesi Johnson, o, per restare in Italia, Adriano Spatola, Patrizia Vicinelli e Elio Pagliarani sono stati dei grandi poeti? E non solo per ciò che hanno scritto, bada bene, ma anche per come lo hanno detto, facendo vivere nel loro corpo il respiro della poesia. Quotidianamente, per l’appunto.