Nessuno se la prenda a male, ma questa è davvero l’Italia dei ‘poetini’. A gettare uno sguardo a ciò che fanno la maggior parte dei poeti delle nuove e nuovissime generazioni, almeno quelli più ‘visibili’, viene lo sconforto. Mentre nel resto del mondo la poesia si avventura su strade nuove, tenta di ritrovare il senso della propria esistenza, ricollocandosi nel corpo e nella voce del poeta, scommette su se stessa, rischia l’azzardo dei nuovi media (chi non mi crede provi a informarsi su ciò che accade nel resto d’Europa, o nelle Americhe), qua da noi è tutto un florilegio di plaquette su plaquette, devastate da io mostruosamente espansi, rese appiccicose da sentimentalità scontate e a volte schiettamente ridicole, un circolo vizioso di leziose auto-indagini esistenziali, che, a lettura finita, ci lasciano più poveri e desolati che mai. Il tutto in un silenzio della teoria, del pensiero, del progetto artistico, davvero impressionante, in cui le massime vette speculative sono toccate da qualche sparuta riflessione sulla lingua, da qualche polemichetta risibile sull’avito dilemma cuore/ragione (ospitato sin sulle pagine del maggior quotidiano nazionale), come se interi decenni fossero passati invano. Viene in mente di dedicare a quest’Italia dei ‘poetini’ i versi che Cino da Pistoia dedicò alla mia città.
D’altra parte i maestri di costoro sono i leader riconosciuti di una restaurazione lirica iniziata ormai da anni e che non accenna a mollare la presa, annidata com’è nelle pieghe pingui dell’editoria e della politica culturale che conta. Così – plaquette dopo plaquette – il monumento al nostro triste provincialismo diviene ogni giorno più grande e vergognosamente visibile. La critica? La critica guarda e ignora, se si fa eccezione di qualche dotta Introduzione a questo, o a quello. Da quanto latita in Italia un serio intervento sulle condizioni della poesia, sulle sue forme, sulle sue prospettive? Sospetto, però, che la ragione non sia soltanto la pigrizia della critica, ma addirittura una sua forma di clemenza… Ciò che i ‘poetini’ producono è autotelico, più che critica, chiede eco, mentre ciò che c’è di nuovo questa critica nemmeno ha gli strumenti per leggerlo. Dunque è il silenzio. E i pochi che si danno davvero da fare rischiano anche di essere calunniati, rei come sono di insistere perché una vera ricerca poetica rinasca in Italia, colpevoli di osare la denuncia: il re è nudo!
Poi, certo, siamo italiani, e i ‘poetini’ e i loro mentori di mezz’età non lo sono di meno. Dunque si orecchia, si provvede a far arrivare sul palco un trio d’archi, ci si esercita a leggere alla meno peggio i propri testi ‘muti’, o si producono strane collane di poesia (che altrove sarebbero considerate frutto di un inesplicabile misreading) in cui ai testi di poesia si accludono dischi di questo, o quel musicante, più o meno a caso, rovistando tra i fondi di magazzino delle case discografiche, nella speranza esplicitata che questo aiuti le vendite.
La poesia, insomma, si guarda morire, coccolando compiaciuta tutti i suoi vizi peggiori. Il suo lezioso silenzio scrive le sua epigrafe funeraria, ovviamente politically correct, badando bene a che le parole all’uopo scelte siano abbastanza raffinate da far letteratura. Come se questi giovani fossero nati già vecchi…