Talvolta gli incipit dei romanzi tutto sembrano fuorché l’inizio di una storia. Più che incipit sono dichiarazioni d’intento, parole così volutamente estranee al ritmo convenzionale della narrativa che è difficile non leggervi la chiave di una confessione in codice dell’autore. Bullet Park inizia proprio così: «Dunque, vorrei davanti a me un quadro con su dipinta una stazioncina, dieci minuti prima che cali la notte.» Lo si potrebbe intendere come un mero espediente per introdurre il mondo nel quale si muoveranno i personaggi del romanzo, ma John Cheever è scrittore troppo elegante e misurato. Egli si limita solo a esprimere un suo desiderio: scrivere come fosse al cospetto di un quadro. Un’analoga questione di ordine pittorico Cheever la riproporrà un decennio dopo, nella prefazione alla raccolta dei suoi racconti: «Il parto di uno scrittore, diversamente da quello di un pittore, non palesa mai un legame significativo con i suoi maestri. Nella crescita di uno scrittore non si troverà mai nulla come le copie della Cappella Sistina che Jackson Pollock dipinse in gioventù.» Forse non è del tutto vero. Forse, a dispetto dell’opinione di Cheever, scrittori che si formano copiando i maestri ce ne sono e anche molti. Ma qui non si tratta di una questione di metodo. Qui è la prospettiva dello scrittore in sé a essere messa in gioco, vale a dire gli occhi con cui egli guarda al mondo per raccontarlo. Il desiderio di avere davanti a sé un quadro corrisponde infatti al sogno di ridefinire a ritroso il proprio percorso letterario ed esistenziale, il sogno impossibile che la fase matura di una serenità raggiunta a forza di disillusioni possa in qualche modo precedere quella acerba dell’innocenza ferita: «Mi sarebbe piaciuto che l’ordine in cui vengono pubblicati questi racconti fosse stato rovesciato, che fossi apparso prima nei panni di un anziano e non in quelli di un giovane rimasto davvero scioccato nello scoprire che donne e uomini genuinamente decorosi possono essere mossi da un accanimento erotico, se non da una vera e propria avidità.» Il trauma di una giovinezza che non avrebbe voluto vivere se non in età avanzata, Cheever l’ha raccontato in un lungo apprendistato letterario che va dalla prima short story del 1930, Expelled — resoconto di come, a soli diciassette anni, l’autore venne cacciato dall’accademia dove studiava — al suo primo romanzo, quel The Wapshot Chronicle (1957) che è di fatto la cronaca della rovina di casa Cheever, del crollo finanziario del padre di John e della conseguente rottura del nucleo famigliare.
Quando nel 1967 pubblica Bullet Park, Cheever potrebbe anche considerare di lasciarsi definitivamente alle spalle quel tempo infelice. Si era visto assegnare una generosa borsa di studio dalla fondazione Guggenheim, aveva vinto il National Book Award per il suo primo romanzo ed era stato insignito della Howells Medal per il secondo. Era inoltre un collaboratore molto apprezzato del «New Yorker» e guadagnava abbastanza denaro da potersi permettere «un vestito nuovo ogni anno» nonché una bella casa con giardino e piscina in uno di quei sobborghi dove tuttora vivono tante persone perbene che fanno i pendolari con New York. Nell’intimo Cheever non si è però mai liberato dell’amarezza di ritrovarsi disillusi; ha così iniziato a esagerare con l’alcol e ha finito col vedere solo desolazione nel mondo della «gente felicemente coniugata che conduce esistenze semplici.» Non sorprende allora che il ritmo di questo lancinante romanzo — autentica anticipazione della condizione umana descritta un ventennio dopo da DeLillo in Rumore Bianco — sia dettato dai bicchieri di whisky e dalle pasticche di psicofarmaci che tutti, invariabilmente, mandano giù. Così come appare inevitabile che la difficoltà di affrontare l’esistenza venga scandita dallo sforzo quotidiano di alzarsi dal letto e di guardarsi allo specchio. È così che nasce il desiderio di contemplare il sobborgo di Bullet Park con gli occhi di un pittore, di osservarlo come si osserva un paesaggio metafisico, un luogo assoluto, quasi possa davvero esistere una periferia fatta esclusivamente di sano benessere, separata dal mondo delle riviste americane «che promettono di far dimenticare alla gente lo squallore, la miseria spirituale e la noia del loro egoismo», un’isola dipinta sullo sfondo di «una grande nazione così pervicacemente votata a drogarsi» perché pronta a vedere nelle pubblicità di alcolici e allucinanti automobili il miraggio di una redenzione. Nulla come i quadri di Hopper può restituire un’idea dello sguardo incantato che Cheever vagheggia. Si pensi a quelle figure immobili colte nella solitudine della loro spoglia intimità mentre fissano con tensione quasi soprannaturale un mistero che è fuori della finestra e oltre i confini della tela. È mai possibile non rimanerne incantati, non desiderare di vedere ciò che vedono i personaggi di quei quadri malgrado sia chiaro che non ci sia altro mistero se non l’oscena normalità su cui anche noi ci affacciamo tutti i giorni: case, finestre, strade e magari proprio una stazioncina di periferia al calare della notte? Nella realtà in cui viviamo — ma ancor più nella Bullet Park di cui Cheever scrive — misteri non ce ne sono, a meno che non si vogliano definire misteri quei perfidi quanto stupidi tranelli del caso e della sbadataggine per cui un uomo muore in seguito alle ustioni riportate durante un barbecue nel giardino di casa o un altro finisce sotto un treno.
Si capisce dunque perché il filo che porterà a intrecciare i destini dei due protagonisti sia la banale coincidenza dei loro nomi: Eliot Nailles e Paul Hammer, come a dire i signori Chiodi e Martello. Nailles beve e abusa segretamente di sostanze stupefacenti, ma è anche un uomo con un buon lavoro, una bella casa, una brava moglie e perfino un figlio che crede di amare nonostante non sappia mai cosa dirgli o consigliargli. Hammer beve anche lui ed è afflitto da un’acuta forma di depressione, ma chi non lo sarebbe quando si è figli illegittimi e ci si chiama Hammer solo perché un giardiniere è passato con un martello in mano davanti alla persona che stava pensando a quale nome darti? Il legame tra i due potrebbe forse non andare oltre «il misterioso potere dell’etimologia», ma l’inedia in cui si crogiola la comunità di Bullet Park spinge Hammer e Nailles a vedere nel figlio di quest’ultimo qualcosa che non c’è. Nailles si convince che un’immaginaria mononucleosi sia la ragione per cui suo figlio, da un giorno all’altro, si rifiuta di alzarsi dal letto. Hammer vede in Tony Nailles la possibilità di dare corpo al folle proposito di uccidere un essere umano in una chiesa. Quello che comincia come il quadretto della tranquilla vita di periferia si ritrova così trasformato nel ritratto di un’ordinaria e diffusa follia all’American Beauty e quando finalmente le cose sembrano risolversi in una sorta di surreale happy ending, immediatamente riaffiora la desolante normalità di sempre, una normalità dove, mentre i figli se ne vanno a scuola, i padri fatti di droghe si dirigono al lavoro nella vuota convinzione che d’incanto tutto sia ridiventato «bello, bello, bello ma bello come era sempre stato.»