Durante l’occupazione tedesca di Parigi, il Colonnello delle SS Hermann Bickler ebbe l’incarico di sorvegliare le personalità francesi della città, conoscendo così un gran numero di esponenti della cultura francese del periodo, tra i quali Louis-Ferdinand Céline. Di seguito un ricordo inedito in Italia degli incontri tra l’alto ufficiale nazista e un Céline tra il maledetto e il bohèmienne:
Uno dei personaggi più strani, più interessanti e anche tra i più simpatici che io abbia conosciuto in Francia fu lo scrittore Louis Ferdinand Destouches, meglio conosciuto letterariamente sotto lo pseudonimo di Louis-Ferdinand Céline. Il suo nome mi era famigliare dagli anni Trenta, da quando avevo scritto del suo primo romanzo, Viaggio al termine della notte, in un giornale di Strasburgo […]
Dopo l’armistizio del giugno 1940, venni a conoscenza che Céline era rimasto a Parigi, come d’altronde la maggior parte degli intellettuali e degli artisti. Non ricordo cosa avesse motivato il nostro primo incontro, ma appresi subito che frequentava l’ambasciata tedesca di rue de Varenne.
Un giorno, il piantone mi annunciò che un uomo dall’aspetto equivoco desiderava parlarmi, e mi chiese se poteva lasciarlo passare. Quando sentii il nome di quest’uomo, ordinai che lo si conducesse a me senza ulteriore attesa. Quando finalmente, sempre scortato dal piantone, egli penetrò nel mio ufficio, compresi fin troppo bene i sospetti della sentinella: Céline sembrava veramente l’immagine che ci si potesse fare del partigiano o di un attentatore. Quest’uomo di alta statura, largo di spalle, indossava una pelliccia di montone e spessa lana. I suoi capelli neri, inquadranti un viso piuttosto pallido, erano in disordine. Tutta la sua persona era d’altronde vestita senza alcuna cura né eleganza. Usava recarsi in moto dai suoi alloggi di Montmartre ai suoi consulti in una banlieue di Parigi dove lavorava come medico dei poveri. Andammo subito d’accordo […]
Dopo il nostro primo incontro, Céline aveva fatto domanda per ottenere un permesso di porto d’armi, perché si sentiva minacciato dai gollisti, permesso che gli fu concesso senz’altra questione.
Secondo me, però, Céline non era mai stato minacciato in questo periodo. Anche i comunisti, i quali iniziavano in questo periodo a mostrarsi attivi, non avevano mai colpito un medico dei poveri. Lo prova un aneddoto tipico, narratomi dal mio amico Céline stesso: dopo un consulto, uno di questi tizi parigini gli riporterà la pistola che, per distrazione, aveva dimenticato nel suo studio durante un esame. Il ragazzo la ridarà al medico canzonandolo, con il suo inimitabile gergo di strada; “Ferdinand, ti sei dimenticato il tuo ferro…”
Spesso, quando Céline transitava nei paraggi spetecchiando con la sua moto, ci faceva una visitina. Ormai, quando passava, non incuteva al piantone più alcun timore. Poi, lo scrittore mi invitò da lui, sulla Butte. Molte di queste serate mi sono rimaste scolpite nella mia memoria. Il suo domicilio si trovava al cuore di Montmartre, e corrispondeva pienamente al suo stesso aspetto. Una volta superate una serie di scure scale di questa vecchia casa, si arrivava a un appartamento composto da tre locali. Una stanza serviva da sala da pranzo e da letto, nell’altra troneggiava un grande tavolo rotondo interamente ricoperto, come anche il pavimento, di foglietti manoscritti. Il terzo serviva da ufficio e ripostiglio, la riserva di legname sistemata a lato della moto. Nel soggiorno vero e proprio, la sudicia pelle di montone era disposta di traverso sul letto, semplicemente accostato un po’ di lato in modo di poter far accomodare a tavola gli invitati. Il pasto consisteva in un’unica portata nutriente e saporita, e nell’appartamento, dove l’apparenza del lusso e ancor più dell’eleganza non avevano il minimo valore, ci si sentiva estremamente a proprio agio. Era sempre interessante. Ci si trovava in piena bohème, come è sempre esistita a Montmartre. Non era raro che un pittore o uno scrittore, residente nel palazzo o nel vicinato, si aggiungesse alla nostra compagnia […]
Impressioni uniche rimanevano impresse quando Céline narrava i suoi pensieri. Parlava sempre con una voce assai tenue, ma in quei momenti abbassava la voce ancor di più, come se realmente parlasse solo a se stesso. Ci si rendeva conto in quei momenti che Céline faceva parte della famiglia dei grandi sonnambuli. Era, in fondo, un realista malinconico. Non importa se questo derivasse dalle origini celtiche di questo nativo della Bretagna, o ancora dai suoi anni di familiarità con il lato oscuro dell’esistenza umana. Appariva allora talvolta, in quei momenti, come un cinico crudele. In realtà, era una persona calorosa, e come amico era di una cordialità incomparabile. Ma non si faceva illusioni sugli umani. Aveva viaggiato in America e in Africa per conto della Società delle Nazioni e aveva anche visitato l’Unione Sovietica. Aveva raccontato in modo terrificante il crollo della Francia nel 1940, e i suoi libri sul caos tedesco del 1945 non si leggono diversamente. Era pessimista sulla guerra, e sulla posizione dei tedeschi in essa. Sono portato inoltre a supporre che molti tedeschi, a fortiori le persone gravitanti intorno all’ambasciata tedesca, che aveva incontrato durante l’Occupazione, non gli fossero particolarmente simpatiche. Gli rimproverava di essersi fatti permanentemente menare per il naso dal governo di Vichy. Rigettava Laval come tipicamente youpin, e d’altra parte, in quei momenti, era ancora meno portato che mai a moderare la sua linea di condotta ferocemente antisemita, che era già la sua prima della guerra. Ebbe anche uno scontro su questi temi con Ernst Jünger, che era al Comando militare di Parigi e espresse chiaramente il suo rifiuto totale di Céline nel suo Diario. Céline non glie lo perdonerà mai, e, come appresi dalle parole dei suoi ultimi visitatori, gli diede il nomignolo, tipico per lui, ma ingiusto, di piccolo pulotto. Ein kleiner Bulle [un torello], come diciamo da noi. I nostri incontri si trasformarono molto presto in una amicizia sincera che si prolungherà oltre la guerra, anche se non lo rivedrò più di persona. Ma mi scrisse ancora dalla Francia, dopo il suo ritorno dall’esilio in Danimarca, qualche lettera commovente, tipica sua. Purtroppo non avevo all’epoca la possibilità di recargli visita. Era già molto malato e ormai alla fine della sua strada.
Da Ein Besonderes Land: Erinnerungen und Betrachtungen eines Lothringers, di Hermann Bickler, 1978. Traduzione di Andrea Lombardi.
L’SS-Standartenführer (Colonnello delle SS) Hermann Bickler [nella foto, il secondo da sinistra] nacque nel 1904 a Hottviller, nel dipartimento della Mosella, in Alsazia-Lorena. Laureato in Giurisprudenza, fu attivo politicamente in Alsazia come autonomista, fondando partiti e periodici in lingua tedesca. Nel 1939 sarà internato dalle autorità francesi, e liberato dall’esercito tedesco nel 1940. Iscritto al NSDAP, fu nominato direttore distrettuale della città di Strasburgo, fu ammesso nelle SS nel settembre 1940: datosi volontario per il fronte russo, gli fu invece data la responsabilità del Reparto VI (Spionaggio) dell’SD (Servizio di Sicurezza) a Parigi, raccogliendo informazioni sulle personalità politiche francesi residenti in città, e organizzando cellule di controspionaggio con personale francese. Dopo lo sbarco Alleato in Francia, fu capo dell’SD in Alsazia e poi inviato fronte orientale, nel reparto propaganda della 5. SS-Panzer-Division “Wiking”. Condannato a morte in contumacia da una corte francese, si rifugiò prima in Tirolo e quindi in Italia, intraprendendo la carriera di uomo d’affari. Morirà nel 1984 nella sua residenza sul Lago Maggiore.