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Ron Leshem: conoscere il "nemico" sui social network.

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Il nemico si può odiare. Il nemico si può combattere, si può temere.

Per Ron Leshem il “nemico” poteva essere l’Iran e gli iraniani, ufficialmente nemici dello stato di Israele. Ma lo scrittore ha voluto conoscere il “nemico”, e lo ha fatto grazie ai social network e alla Rete. Da questa esperienza di avvicinamento e di consocenza, mediata dalla scrittura, è nato poi il libro Underground Bazar, pubblicato da Cargo, di cui proponiamo qui una parte della postfazione, firmata dallo stesso autore.

Tre anni e mezzo fa per la prima volta nella mia vita ho incontrato degli iraniani. È cominciato in internet. Non sono motocicletta, ma possono andare in bicicletta. Un omosessuale rischia la pena di morte, ma lo stato incoraggia il ricorso alla chirurgia per cambiare il proprio sesso. Che genere di uomo sarei stato in un posto simile? Ero perplesso. Così, ho chiuso gli occhi e mi sono rifugiato in un luogo oscuro. Mi sono chiesto: cosa faresti se ti rubassero il tuo paese? Ti rivolteresti, con la chiara consapevolezza di poter fallire? Entreresti a far parte dell’opposizione clandestina, manifesteresti? Torneresti alla religione, ossia, accetteresti il fallimento? La libertà è un peso troppo pesante da portare? Generalmente, scrivo per forgiarmi una vita che altrimenti non avrei la possibilità di conoscere.

Scrivere è vivere quella vita, scrivo invece di vivere. È così che mi sono proiettato dall’altra parte del sipario nero, e ho cominciato a vagabondare. Ho provato a misurare il fossato che ci divide, poi mi ci sono abituato, perché l’Iran sa come addomesticarci. E gli esseri umani si abituano a tutto – l’arbitrio, l’ingiustizia, la discriminazione – e sprofondano nell’apatia e nell’impotenza. Se la cavano con un’ingannevole vita privata. Questo si chiama vivere.

Quando ho capito che le somiglianze erano più delle differenze, e che il fossato non era poi così profondo, una nube scura e irritante incombeva su tale pensiero, lasciando filtrare tuttavia dei raggi di luce e di speranza. Tutto dipendeva da che cosa cercavo di vedere. Nei mesi successivi, ho chiesto aiuto ad alcuni giornalisti francesi e tedeschi. Affidavo loro delle missioni letterarie dall’altra parte del sipario nero. Fotografavano volti, raccoglievano testimonianze, partecipavano a feste autorizzate o clandestine. Ho guardato dei film, letto libri, imparato delle poesie, raccolto carte geografiche. E ho navigato in internet a perdifiato. Internet avrebbe cambiato il mondo, o era solamente un mezzo per sfuggire al mondo? Ho cercato delle risposte in Iran, perché il mondo virtuale in una vita di tenebre si rivelava un paradosso molto sicuro di sapere perché li ho avvicinati. A volte cerco l’amicizia di un individuo che non ha nessun motivo per essere mio amico. Sotto la protezione di un social network, mi intrufolo nei suoi album fotografici, navigo con indiscreta placidità all’interno di casa sua, lo osservo durante una cena di famiglia, in ufficio, in vacanza, in un bar, in spiaggia, quando si alza, quando si corica. Familiarizzo con le sue espressioni, so quante persone diverse abbraccia, e in che modo loro toccano lui. Chiunque faccia parte della sua vita appare sullo schermo, e io mi aggiro tra i nomi. Gli scrivono, lui racconta: quello che pensa, ciò che ama, chi lo ha tradito, l’umore del mattino. Li tiene informati: alla gente piace molto tenere informati gli altri. E io navigo e, stranamente, a volte trovo dei veri amici. Quando chiedo l’amicizia ai palestinesi, è raro che accettino. Tra gli egiziani l’apertura nei confronti di Israele è irrisoria. I siriani non hanno un vero accesso a internet. Ma quando mi rivolgevo agli iraniani, accettavano tutti senza eccezione, ed entravo nelle loro pagine. Le foto dei loro album sembravano scattate all’angolo di casa mia, nell’appartamento di uno dei miei amici. Mi trascinavano in un fiume ribollente di conversazioni condotte in un universo parallelo, che rassomigliava in tutto e per tutto al nostro, solo che lì i colori erano più intensi. E ogni fotografia, ogni storia svelava un piccolo dettaglio preso da un altro pianeta, una luna in orbita in un’altra traiettoria.

Gli iraniani e io ci siamo scritti di notte, per due anni. Illegalmente. L’idea che il mondo ci impedisse di incontrarci mi faceva impazzire. Ho provato a imparare la lingua, il gergo, la musica, i nomi delle vie, parchi e ristoranti. E le loro leggi. Perché, laggiù, nella vita di tutti i giorni, ogni individuo deve tenere a mente un’enorme quantità di leggi. Le leggi e i decreti religiosi nascono e muoiono. Le donne non hanno il diritto di cantare da soliste, ma possono partecipare a un coro. Non hanno il diritto di salire su una motocicletta, ma possono andare in bicicletta. Un omosessuale rischia la pena di morte, ma lo stato incoraggia il ricorso alla chirurgia per cambiare il proprio sesso. Che genere di uomo sarei stato in un posto simile? Ero perplesso. Così, ho chiuso gli occhi e mi sono rifugiato in un luogo oscuro. Mi sono chiesto: cosa faresti se ti rubassero il tuo paese? Ti rivolteresti, con la chiara consapevolezza di poter fallire? Entreresti a far parte dell’opposizione clandestina, manifesteresti? Torneresti alla religione, ossia, accetteresti il fallimento? La libertà è un peso troppo pesante da portare? Generalmente, scrivo per forgiarmi una vita che altrimenti non avrei la possibilità di conoscere. Scrivere è vivere quella vita, scrivo invece di vivere. È così che mi sono proiettato dall’altra parte del sipario nero, e ho cominciato a vagabondare. Ho provato a misurare il fossato che ci divide, poi mi ci sono abituato, perché l’Iran sa come addomesticarci. E gli esseri umani si abituano a tutto – l’arbitrio, l’ingiustizia, la discriminazione – e sprofondano nell’apatia e nell’impotenza. Se la cavano con un’ingannevole vita privata. Questo si chiama vivere. Quando ho capito che le somiglianze erano più delle differenze, e che il fossato non era poi così profondo, una nube scura e irritante incombeva su tale pensiero, lasciando filtrare tuttavia dei raggi di luce e di speranza. Tutto dipendeva da che cosa cercavo di vedere.

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