Che a criticare lo spoken word siano i poeti di derivazione simbolista, orfica, o crepuscolare c’è ovviamente poco da stupirsi.
Anzi, da questo punto di vista, va loro riconosciuta la stessa coerenza che poi, platealmente, perdono quando, tenuti al guinzaglio dal proprio Narciso, salgono sul palco a pronunciare i loro versi.
In un bellissimo saggio dedicato all’oralità in poesia, ormai di qualche decennio fa, all’inizio di quella che chiamerei la stagione dei festival, Franco Fortini, appoggiandosi su testimonianze d’epoca e su qualche primitiva incisione, sottolineava l’attenzione che i poeti simbolisti ponevano, qualora dovessero leggere ad alta voce i propri versi, a far sì che la lettura risultasse il più piatta ed anodina possibile. Il perché è evidente. Non la ‘eseguivano’, si limitavano a ‘pronunciarla’. E potendo avrebbero volentieri fatto a meno anche di pronunciarla. Chapeau!
Fa più impressione, invece, che anche tra coloro che danno fiato alle loro trombe in difesa dello sperimentalismo, della ‘poesia di ricerca’ e dell’Avanguardia vi sia un nucleo, neanche troppo sparuto, di nemici giurati dell’oralità e della multimedialità.
Ne è esempio esplicito la prefazione che Vincenzo Ostuni (ma anche Marco Giovenale non perde occasione per proporre tesi bizzarramente simili) fa alla sua scelta antologica, “Poeti degli anni zero”.
Potrà sembrar strano, ma al momento di elencare i criteri di esclusione di alcuni autori dalla sua crestomazia, accanto al neo-orfismo, o neo-lirismo che dir si voglia, c’è proprio l’oralità.
Il cruccio di Ostuni (che ancora crede, alla faccia di infinite acquisizioni linguistico-antropologiche, che una lingua scritta sia più complessa e profonda di una orale, in compagnia di tanti nipotini di Benedetto Croce) è che: «la comunità critica (la ‘comunità critica’?) sia stata in certi casi indotta a una sopravvalutazione di autori i cui testi hanno il proprio principale valore nel risultare particolarmente efficaci al primo ascolto». Per poi aggiungere: «alcune esclusioni di autrici e autori affezionati a quel veicolo forse sorprenderanno, ma sono sostenute dall’intenzione di ristabilire la primazia della lettura su pagina».
Ohibò! Dunque, intanto: se si fa spoken word si è paria? Alla faccia del fatto che la poesia (unica tra le arti ad aver cambiato nel tempo il suo medium di trasmissione) sia nata arte orale e non abbia nulla a che vedere con la sua amata ‘letteratura’?
Prendo atto con stupore e provvederò a mettere una bella stella gialla sulla mia camicia prima del mio prossimo concerto di poesia…
Eh sì, perché, a parere di Ostuni è ovvio che «l’ascolto, per di più un ascolto unico, di un testo poetico non consenta al fruitore di accedere che a una minima porzione della sua ricchezza espressiva».
Polemiche a parte, posizioni del genere si portano dietro valanghe di incomprensioni e superficialità di giudizio critico.
Intanto occorrerebbe avvertire Ostuni di un po’ di evidenze: primo, che ovviamente anche i poeti che fanno spoken word scrivono i loro testi, nessuno di noi è così ingenuo da credere di trovarsi a operare in situazione di ‘oralità primaria’, come avrebbe detto Ong.
Lo spoken word NON è ‘poesia orale’, è l’oratura di un testo scritto, ma quel testo scritto è stato composto per essere detto ad alta voce e dunque, con buona pace di Ostuni, esso sfrutterà strumenti retorici e linguistici molto differenti da quelli di uno nato per essere fruito in silenzio. Prima di tutto il verso, l’a capo, che nei due casi ha valori radicalmente differenti: decisivo nel caso di un testo ‘muto’, praticamente indifferente in un altro che fa da spartito ad un’oratura.
Dunque quell’oralizzazione, almeno in linea di principio, avrà una complessità ‘diversa’, nata per essere fruita anche all’ascolto.
Secondo: Ostuni non ci crederà, ma da tempo è possibile registrare e riprodurre la voce umana, dando ad essa quella caratteristica di ricorsività che è dello scritto.
Non capisco di cosa parli quando si riferisce ad un ascolto unico… Il critico letterario, ma anche il buon fruitore, se vogliono, se ne sentono la necessità, hanno a disposizione il testo scritto e magari anche un disco.
Per altro verso, la vocalità di ogni singola oralizzazione nello spoken word è una ‘forma’ altrettanto importante e decisiva di quella più strettamente linguistica.
Ostuni è padrone di credere che ‘la maggior parte’ gli autori da lui antologizzati «abbia sviluppato un convincente stile di lettura orale», ma forse confonde la capacità di ‘pronunciare’ correttamente un testo poetico, con quella di eseguirlo davvero.
Io proprio sulla ‘maggior parte’ di loro non scommetterei a cuor leggero, mettiamola così…
Forse rileggere qualche caveat di Zumthor a proposito potrebbe aiutarlo ad avere le idee più chiare.
Ciò che colpisce è poi risentire tra le righe di questa prefazione la cupa condanna ideologica e paleo-marxista dello ‘spettacolo’, già letta ,ahimè, in certi interventi di Filippo Bettini (vero pasdaran dell’avanguardia tutta letteraria) dei primi anni Novanta.
E’ la maledizione che colpisce tutti coloro che hanno letto Debord con un occhio solo e confondono spettacolo con ‘spettacolarizzazione’.
In uno spettacolo non c’è nulla di male, o, a voler dare credibilità a Ostuni-Savonarola, e a suo cugino maggiore, Filippo Bettini, non andremo più a teatro, ad ascoltar concerti, a vedere balletti, ecc.
Ma no, dirà forse Ostuni, è ovvio che la rappresentazione del ‘Principe Costante’, o della ‘Classe morta’ non possano farci comprendere appieno la complessità del pensiero di Grotowsky e Kantor: no, dobbiamo leggere il copione… Ci provi e ci faccia sapere cosa ne conclude…
Per altro verso, visto che la sua scelta è stata ‘sperimentale’ e visto che, come negarlo, la neo-avanguardia italiana non può essere ridotta alle posizioni letteraturizzanti di Sanguineti e Giuliani, ma è vissuta anche della multimedialità di Balestrini, dell’oralità di Pagliarani, Costa e Vicinelli, della scommessa di Porta sulla ‘voce, Ostuni ha il suo bel da fare a riportare al pollaio della carta scritta autori che invece, proprio in quanto sperimentali, ‘di ricerca’, non si limitano affatto alla carta: salgono sul palco, collaborano con fotografi, musicisti, video artisti, musicisti…
Ma lì soccorre il sottotitolo, quella è ‘poesia fuori di sé’ e chissà se il calembour è voluto, o se invece è lapsus freudiano.
Così Ostuni, da multimediali, li riduce a poligrafi, gente che scrive testi per altri, nei momenti liberi, insomma produzione, poeticamente (e letterariamente), di serie B.
Chissà che ne pensano gli antologizzati, sarei curioso di sapere…
Né si fa alcuno scrupolo, per avvalorare le sue tesi, di convocare auctoritas critiche ad usum delphini: Paolo Giovannetti va bene per legittimare la poesia in prosa (muta e scritta, ci mancherebbe!), per poi dimenticarsi che proprio Giovannetti è uno degli studiosi più ferrati ed attenti della poesia oralizzata, che certo non condivide i suoi pregiudizi tanto tranchant sullo spoken word.
In breve: un capolavoro di fariseismo critico. Ma assolutamente sperimentale, di ricerca e d’avanguardia: ci mancherebbe altro!