Il tuo ultimo libro, Milano, fin qui tutto bene, edito da Laterza, racconta le periferie della città attraverso quattro personaggi. Non sembra un reportage e neanche una raccolta di racconti. Cosa avevi in mente quando hai cominciato la stesura?
L’ho immaginato come un romanzo, in realtà è nato da una lunghissima ricerca con la collaborazione di una mia amica fotografa, Silvia Azzari. Siamo andate in giro per i quattro quartieri di Milano citati nel libro – Via Padova, Viale Monza, Corvetto e Sarpi – vivendo pienamente quelle strade, cosa che a Milano non si fa più perché si passa da un’abitazione all’altra, da un locale all’altro, come se le strade non fossero dei luoghi in cui sostare ma solo vie per raggiungerne degli altri. Oggi gli immigrati rivivono la strada come fosse un salotto e anche noi abbiamo vissuto la strada in questo modo, chiacchierando con tutti, trovandoci nelle situazioni più impensate: alle quattro del mattino in una discoteca solo per stranieri, oppure a casa di una famiglia napoletana, di venti metri quadri, dove vivevano in cinque. Tutte le suggestioni, le informazioni raccolte, le esperienze vissute, i racconti ascoltati sono stati trasformati in quella che spero sia letteratura. Nel romanzo ci sono quattro personaggi principali che vivono in quattro quartieri diversi raccontati dal loro punto di vista. Sono anche quattro visioni molto diverse della città.
Uno dei personaggi è Tony. La sua personalità è tratteggiata oltre che dalle azioni che compie e dagli atteggiamenti che manifesta, anche dalla sua lingua: un misto di dialetto napoletano, slang giamaicano, dialetto milanese. Chi è Tony?
Tony è un ragazzino di Corvetto, impregnato della cultura del suo quartiere, in cui si sente spesso dire “Corvetto comanda”, “Corvetto ha le sue regole che non hanno niente a che fare con quelle del resto del mondo” e lui è un ragazzo napoletano (come moltissimi degli abitanti di Corvetto che è sempre stato quasi un feudo del meridione a Milano e dove adesso a poco a poco si stanno stabilendo tanti immigrati, provenienti soprattutto dall’Africa e dall’Asia). Parla varie lingue, è un appassionato di musica reggae, quindi assorbe questo tipo di cultura che si manifesta nei suoi atteggiamenti, nel suo modo di vedere il mondo e fonde questa filosofia e questa lingua con quelle di origine, dal napoletano all’italiano.
Com’è la lingua degli altri personaggi?
L’egiziano parla un po’ in arabo e un po’ in italiano, la ragazza che vive nel quartiere Sarpi parla in milanese perché è una milanese doc e l’altra ragazza parla attraverso i dialetti e i proverbi.
Qual era l’intento di fondo di un’operazione del genere?
Fare una fotografia della Milano di oggi, riportare sulla pagina quello che noi ascoltiamo, un miscuglio di lingue. Persino in autobus, ci troviamo spesso ad ascoltare suonerie provenienti da diverse parti del mondo. Sembra una Milano in presa diretta.
Quanto è stato frutto del tuo ascolto e quanto ti sei fatta aiutare nel riscostruire la lingua dei quattro personaggi?
Mi sono fatta aiutare moltissimo. Io non conosco l’arabo, non conosco così bene il patois (patuà) e c’è stata una collaborazione sia con gli amici che con i parenti: mia nonna per esempio, milanese, conosceva bene il dialetto.
Le immagini che rappresenti nel libro attraverso la scrittura sembrano immediate, istantanee, per nulla ritoccate. Appartieni a quella categoria di autori che scrive d’istinto o prediligi la riscrittura?
Non scrivo assolutamente di getto. Faccio un lunghissimo lavoro sulla scrittura, sulla punteggiatura, una revisione quasi ossessiva delle singole parole. Il mio è anche un lavoro di scarnificazione, tendo a togliere tutto ciò che mi sembra superfluo, alla ricerca di una musicalità, di un ritmo incalzante che poi è anche quello della musica che ascolto: l’hip pop e il reggae, un ritmo sincopato, veloce, rappresentazione del contemporaneo.
Stai già lavorando al prossimo libro?
Sì, ad un romanzo. Ci sono ancora una volta quattro personaggi le cui storie si intersecano tra loro, è una storia completamente ambientata a Milano che ruota attorno a una protagonista, Diana, per metà indiana e per metà italiana, è una sospensione tra il ricordo dell’India e la Milano di oggi.
Gabriella Kuruvilla, nata a Milano da padre indiano e madre italiana, è giornalista e scrittrice. Ha collaborato con vari quotidiani e riviste tra cui “Corriere della Sera”, “Max”, “Anna”, “Marie Claire”, “Cosmopolitan”, “Urban” e “D”. Nel 2001 ha pubblicato, con lo pseudonimo di Viola Chandra, il romanzo Media chiara e noccioline per Derive Approdi, nel 2008 l’antologia È la vita, dolcezza per Baldini Castoldi Dalai e nel 2010 il libro per bambini Questa non è una baby-sitter (con illustrazioni di Gabriella Giandelli), per Terre di Mezzo. Nel giugno 2012 ha pubblicato, per la collana Contromano di Laterza, il libro Milano, fin qui tutto bene.