Gian Micalessin, giornalista, inviato di guerra e co-fondatore dell’agenzia Albatross Press, specializzata in reportage sulle aree di conflitto. Ha realizzato reportage al seguito dei mujaheddin afghani, raccontando la resistenza all’invasione sovietica. Dalla fine degli anni ’90 segue le questioni mediorientali, il conflitto israelo-palestinese e l’Iran. Per la carta stampata ha collaborato con Corriere della Sera, Repubblica, Panorama, Libération, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review. Autore di programmi televisivi e reportage, ha prodotto documentari e servizi per Rai, Mediaset, La7 e per le più importanti reti americane ed europee.
Il dibattito sulla presenza italiana nelle missioni di pace è talvolta acceso, soprattutto in particolari momenti del dibattito politico. Con il tuo ultimo libro “Afghanistan solo andata. Storie dei soldati italiani caduti nel paese degli aquiloni”, edito da Cairo, non hai solo raccontato i caduti sul campo di battaglia, ma hai provato a fare qualcosa di più.
Ho tentato di raccontare la loro vita, non solo quella vissuta sul campo di battaglia, quella in divisa, ma anche quella vissuta prima, quando hanno deciso di entrare nell’esercito e poi di partecipare alla missione. Quando ascoltiamo le storie dei nostri caduti, abbiamo delle immagini rarefatte, conosciamo a stento i loro volti. Il mio è stato dunque un tentativo di raccontare non solo la loro morte, ma soprattutto la loro vita.
Il libro ricostruisce otto storie esemplari. Una di queste è quella di Carmine Calò, Tenente Colonnello dell’Aviazione dell’Esercito, in missione nel regno dei talebani. Vorrei ripercorressi la sua storia.
Carmine Calò è un colonnello dell’aviazione dell’esercito, prestato ai caschi blu dell’Onu. Viene mandato in una missione difficile, quasi impossibile, una missione di osservazione all’interno del regno talebano. E’ il 1998, quando sono state bombardate le basi di Bin Laden, a causa di rappresaglie contro gli attentati nei confronti delle ambasciate americane in Africa, nel luglio dello stesso anno. Il colonnello Calò arriva in questo difficilissimo frangente, deve riferire agli stati maggiori delle Nazioni Unite cosa sta succedendo nel campo talebano, qual è la situazione nel territorio dell’Afghanistan, completamente abbandonato dagli occidentali. In questa missione, la mattina dopo il bombardamento americano delle basi di Bin Laden, cade vittima di un agguato da parte di due talebani che probabilmente aspettavano il primo mezzo dell’ONU per aprire il fuoco. Muore anche perché non c’è personale medico in grado di portarlo in Italia, viene curato all’ospedale afgano con tutte le difficoltà immaginabili e senza l’assistenza medica necessaria, morendo alla fine da solo.
Chi fa il militare non racconta mai quello che attraversa, le numerose difficoltà che deve fronteggiare. Non le racconta alle famiglie, né a coloro che sono al di fuori del contesto militare. Cosa potranno leggere le famiglie dei soldati nel tuo libro?
Ci sono racconti inediti della vita sul campo, le battaglie combattute che spesso i soldati non raccontano, battaglie di cui non si parla nemmeno sulle pagine dei giornali.
Cosa pensi della questione riguardante la presunta fornitura di armi in Afghanistan?
L’Afghanistan è una grande armeria. Non c’è villaggio dove non ci siano armi. Non c’è bisogno di dare armi all’Afghanistan perché ne ha già abbastanza per armare un altro paese. Questa è una missione che probabilmente fallirà ma se non si proverà a far qualcosa ci si chiederà perché non è stato fatto nulla. Chi fa qualcosa sbaglia, chi non fa nulla non corre il rischio di sbagliare.
Cosa distingue l’esercito italiano dagli altri eserciti?
Il nostro esercito in Afghanistan è molto diverso dagli altri, da quello americano così come da quello inglese. E’ un esercito che sa entrare in punta di piedi nei villaggi, senza urtare la suscettibilità degli afgani, sviluppando e applicando quel buonsenso, tutto italiano, che ci aiuta molto spesso a entrare in sintonia con popoli dalla tradizione molto diversa dalla nostra. Cosa che gli Americani non sanno fare, che risulta difficile anche agli Inglesi per quanto abbiano molta più esperienza di noi.
Quello italiano è l’unico esercito composto non solo da uomini in prima linea, ma anche da donne. Una di loro è Monica Contraffatto, la soldatessa 24enne di Gela, rimasta ferita dai colpi di mortaio, nella zona del Gulistan, alla base della brigata Garibaldi. Chi è Monica al di là dei media?
Monica è un bersagliere, ferita in quell’attacco dello scorso marzo in cui è morto un bersagliere e un altro è rimasto ferito. Monica ha perso una gamba, ha subito l’amputazione di alcune dita, ha perso alcuni tratti dell’intestino, è stata salvata in estremo. Sono andato a trovarla al Policlinico Celio di Roma, dove è stata ricoverata dopo l’attentato e, nonostante le ferite gravissime, ha comunque conservato uno spirito vivace e ironico. A distanza di mesi, scherza con il padre dicendogli “perché non mi passi mai l’altra scarpa?”, quando si alza per camminare con le stampelle, oppure chiede con leggerezza a chi l’accompagna “dove ci sediamo? Io la sedia ce l’ho”. Soprattutto ha conservato la voglia di tornare in Afghanistan. Il suo sogno è indossare ancora una volta la divisa e tornare in quella terra che le ha lasciato sì delle ferite, ma anche dei ricordi e dei momenti d’umanità indelebili. Quando le ho chiesto cosa volesse fare da quel momento in poi lei mi ha risposto “voglio che mi mettano una gamba finta per poter tornare in prima linea”.