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Intervista a Federico Roncoroni

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Un abbraccio alla lingua italiana. Non poteva essere diversamente per il linguista più ‘adottato’, letto e studiato d’Italia, Federico Roncoroni. Nato a Como, figura di riferimento per il mondo della lingua, della letteratura italiana e della didattica, saggista, studioso di poeti e scrittori dell’Ottocento e del Novecento – D’Annunzio, Gadda e Chiara – Roncoroni è anche autore di opere di grandissimo successo come Testo e contesto, Il libro degli aforismi e La dimensione linguistica. Sua è la Grammatica italiana più diffusa nelle scuole e più venduta nel mondo. Il suo ‘Sillabario della memoria. Viaggio sentimentale tra le parole amate’, edito da Salani, rappresenta il suo esordio nella narrativa. Attraverso la ricostruzione di alcuni termini dialettali e non solo, Roncoroni compie un viaggio nell’infanzia e nell’adolescenza. Affinché la memoria del singolo possa costituire la memoria di molti.

 

Un esordio nella narrativa, no?

Un tardivo esordio narrativo. Dopo tanti libri di saggistica, libri per bambini, testi scolastici, numerose grammatiche – forse anche troppe – ho deciso di mettere per iscritto i racconti, condivisi con gli amici, sulle parole.

Molte parole non esistono più, o meglio, descrivono un mondo che non esiste più. Vuole ricordarne qualcuna che l’ha appassionata più di altre e che ha deciso di inserire nel Sillabario?

Innanzitutto le parole della mia infanzia e della mia adolescenza che risuonavano in famiglia. Erano parole spesso dialettali che usavamo noi fratelli e che poi abbiamo usato per tutta la vita. Ad esempio barlafùse…

Ricordiamo intanto la sua provenienza.

Io sono comasco. Ho vissuto a lungo negli Stati Uniti, ho lavorato a Milano, ma la mia formazione lessicale è comasca. Direi che è anche una formazione dialettale, almeno fino ai diciotto anni, quando sono andato a studiare in collegio, a Pavia. Fino ad allora, avevo sentito soprattutto il dialetto dai miei genitori e dai miei nonni. Poi, al liceo, ho conosciuto le parole della lingua italiana, quelle della poesia e della letteratura.

Torniamo alle parole che ricorda con più piacere e che ha inserito nel libro.

Una parola che mi piace tanto e che qui ho registrato è albasia, cioè la tranquillità del mare al mattino, quando il cielo è sereno e la superficie dell’acqua è proprio calma. Un’altra parola è biscondola, un luogo appartato dove si può stare tranquilli a riposare. Poi ci sono parole che non si usano più come martorello che io ho imparato attraverso mia nonna – da martul, martulot – ma è una parola presente anche nel Manzoni: martorello è definito Renzo, nei Promessi Sposi. Chi potrebbe apprezzare, a suo avviso, il libro? La prima cosa che ci tengo a puntualizzare è che non è un libro per bambini. Dopo tanti libri scritti per loro, filastrocche, libri scolastici e così via, questa volta mi sono lasciato andare e mi sono esposto in primo piano. Dunque, direi un libro per adulti.

La memoria è un arricchimento sempre e comunque?

Dipende da come si è vissuti. La memoria può essere un peso, carica di rimorsi o di rimpianti, quindi di dolore. Vi è poi la memoria che recupera persone care scomparse, luoghi, oggetti, paesaggi e in quel caso è una memoria edificante. La memoria, in entrambi i casi, resta un valore. Se fossimo senza memoria, non avremmo più la vita. Io ho vissuto accanto ad una persona che ha perso la memoria per via dell’Alzheimer: mia madre. Le assicuro che era totalmente priva di memoria, aveva dimenticato persino il suo nome.

Dunque perdita di memoria come perdita dell’identità.

Sì. La memoria è anche un valore collettivo. Pensiamo alle parole: se ci riconosciamo in dieci, cento, mille, centomila parole, abbiamo un’identità comune – che è poi il Paese in cui viviamo – e se non le abbiamo non facciamo comunità. Ho scritto questo libro anche per ‘fermare’ queste parole e farle rivivere, rendendo vitale così la lingua del nostro paese, tra gli anni Cinquanta del secolo scorso e oggi.

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