Piersandro Pallavicini, scrittore Feltrinelli e critico letterario di TTL- La Stampa, inaugura la sua rubrica “SAt Lab. Liberatevi dalla vecchie credenze” con una premessa che, secondo noi di Satisfiction.me, pone una tematica centrale nella critica letteraria di questi tempi (im)mediati.
Estraneo ad ogni logica di mercato, Pallavicini recensisce solo ciò che gli piace. Una scelta solo apparentemente indolore, perché nel caso di libri buoni, ma scritti da autori dal carattere meno piacevole, solleva un altro genere di questione. Quella dell’onestà dello scrittore. Perché la scrittura è e non può essere che lo specchio trasparente di chi si è.
Voglio cominciare questa rubrica con una confessione.
Sono uno scrittore e scrivo recensioni di libri italiani. Per farlo, uso, salvo rari casi, questa strategia: prima leggo e poi, solo se il libro mi è piaciuto, ne propongo la recensione. Sembra facile: così dico sempre e solo bene, non rischio di inimicarmi qualche collega, editore, ufficio stampa. Giusto?
D’accordo, alcune di queste argomentazioni hanno del vero. Dico solo che in questa scelta ci sono altre motivazioni, ben più serie, che vanno al di la dell’evitare di pestare i piedi a qualcuno. Motivazioni che non sto a raccontare qui, ora, perché non è questo il punto. Mi interessa piuttosto sottolineare – ed ecco che la confessione incomincia – che spesso anche questo tipo di scelta non è esattamente indolore.
Il fatto è che conosco gli scrittori di cui recensisco i libri. Posso averli incontrati, frequentati, ascoltati in radio, visti in televisione. O quantomeno posso averli letti nel loro quotidiano mettersi in pubblico nei social network, dove, di norma, ci si è reciprocamente aggiunti agli “amici”. Mi viene difficile, allora, ammettere che un libro mi sia piaciuto qualora venga da una persona che detesto. O anche solo da una persona di cui non condivido l’atteggiamento, le opinioni, le idee. In questi casi devo compiere uno sforzo di astrazione, di autocontrollo. Devo leggere il libro e parlarne con aplomb anglosassone per quello che è, restando tra le pagine e dimenticando l’autore. E alla fine della recensione rimane comunque qualcosa che mi tormenta nel profondo. Una sensazione di imperfezione, di non aver fatto pienamente il mio dovere.
Non è una banale questione di antipatia: è che ho la limpida convinzione che si scrive per quello che si è. E che se non lo si fa, si sta mentendo. Se uno scrittore arrogante, arrivista, maleducato, snob, scrive un libro intriso di impegno e caritatevole preoccupazione per il mondo, lo sta facendo per piacere a qualcuno (ai lettori, ai critici, alle giurie dei premi?). Non perché ci crede davvero.
E che importa, direte voi. Conta il libro, la pagina, l’impressione di lettura. Eh no, invece importa eccome. Perché, se si mente, non si rispetta una delle poche regole che possiamo considerare fondanti per fare un buon libro: scriverlo perché è necessario, perché ci sgorga dall’anima, perché mette a nudo qualcosa che ci preme. Scriverlo, senza metter filtri di mezzo, perché non possiamo fare altrimenti.
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Piersandro Pallavicini