Nel 1963 Cesare Cases pubblicò per l’Einaudi, di cui era consigliori, “Saggi e note di letteratura tedesca”, raccolta in cui spiccava una stroncatura del “Leviatano o Il migliore dei mondi” di Arno Schmidt (scritto nel 1946, ora tradotto a mia cura per Mimesis). La riporto sfrondata di riassunto della trama e amenità varie:
Credevamo che si fossero ormai esaurite tutte le possibilità di fare della letteratura distruggendo la letteratura, e invece no. Schmidt ci mostra che l’esistenza di un enfant terrible, animato da sentimenti eversivi contro ogni autorità e contro le forme tradizionali, è ancora possibile. A prima vista la sua prosa d’arte si distingue a malapena dalle altre del genere; scritta in prima persona, in uno stile smozzicato e divagante, formicolante di lunghe parentesi, senza che vi succeda mai nulla di ben definito. Anche le situazioni sono tipiche: “Leviatano” è il resoconto di un viaggio in treno, verso una destinazione ignota. Nel treno ci sono varie persone tra cui una ragazza cui lo legano imprecisi rapporti amorosi, e qualche vecchio, con uno dei quali si fanno lunghi discorsi filosofici. Già da questi pochi cenni risulta una caratteristica: la predilezione per la cultura, sostenuta da una pesante erudizione e usata in buona parte in funzione formalistica, estetizzante, per dare delle belle liste sonanti di nomi. Ora, l’esperienza fondamentale di Schmidt è il nazismo, per lui incarnazione integrale del Leviatano, del brutto potere ascoso che opprime e distrugge l’uomo. Il nichilismo, la sete d’eversione, si appunta quindi contro ogni ordine in quanto ogni ordine è di natura leviatanica. Ma col semplicismo non si va molto lontano. C’è un momento nella vita in cui si vede il Leviatano anche dove non c’è: questa è la verità di Schmidt. Certo, il momento dell’adolescenza è soltanto un momento. Ce ne rendiamo conto aprendo un secondo libretto, pubblicato anni dopo. Già la differenza della veste tipografica salta agli occhi. Sul primo, piuttosto dimesso, troneggiava in copertina un orribile mostro; il secondo fa parte di una collana che è un calco dell’americana “New Direction”, coi medesimi irritanti caratteri Sparta (nati per la réclame, tradiscono l’immanenza della commercialità nella più esoterica letteratura d’avanguardia). Evidentemente i nihilisti si sono alquanto imborghesiti, la ribellione di Schmidt è diventata decisamente prolissa, snobistica, cinica. Ci vedi il cittadino del mondo che si fa fotografare mentre brucia il passaporto, salvo richiederne uno nuovo il giorno dopo per non aver seccature. La stessa decadenza è nello stile, sempre abile, ma questa volta freddamente abile. La faccenda comincia a diventare stucchevole: Paganini si ripete. Possibile che ci siamo ingannati, che anche la violenza verbale del primo Schmidt fosse soltanto uno dei soliti esercizi manieristici? Preferiamo credere di no, che Schmidt abbia incarnato, almeno per un momento, la ribellione della genuina “gioventù del mondo” contro la barbarie nazista. Ma bisognerà bene che si adatti alla stabilità e si accorga che ci vuole un minimo di organizzazione anche per combattere il Leviatano. A meno che non si ritiri nel menefreghismo, il quale è una delle più salde colonne su cui le tirannie leviataniche instaurano il loro sanguinoso terrore.
C’è dunque poco da meravigliarsi se nel 1965, quando per contrastare l’egemonia della Feltrinelli nell’ambito della letteratura tedesca d’avanguardia l’Einaudi si vide costretta in qualche modo a pubblicare qualcosa di Schmidt, Cases pensò bene di scartare il “Leviatano” pur a diritti pagati, e di limitarsi a una raccolta di racconti a carattere storico-allegorico.
Se però, come noto, Cases fu un germanista della domenica, ce n’era almeno un altro che lavorava tutti gli altri giorni. Così a inizio 1971 uscì l’ultimo volume della monumentale “Storia della letteratura tedesca” di Ladislao Mittner, che dedicava un capitolo a Schmidt tutto centrato sul “Leviatano”, in velata ma forte polemica con…
Il nulla dell’anno zero conteneva in sé il proprio correttivo, un qualcosa che poteva essere anche tutto, sia in quanto speranza ancora oscura di vita, sia come risoluta, seppur sterile volontà di resistenza morale a un nulla invincibile, che l’individuo consapevole del valore della propria individualità può tuttavia negare. Tanto maggiore importanza dobbiamo attribuire al “Leviatano” di Schmidt, in cui si continua a vedere il libro della ribellione della genuina “gioventù del mondo” contro la barbarie nazista, sebbene esso sia stato scritto da un autore giunto allora quasi al quarantesimo anno di età. L’eccezionalità dell’opera realistico-fantastica di Schmidt consiste secondo noi nel fatto che è la sola nell’immediato dopoguerra a rappresentare il principio ulisseo e illuministico dell’intelligenza esploratrice e sperimentatrice, la quale non si lascia attrarre dalla suggestione del gorgo, ma vi si avvicina col fermo proposito di conoscerlo circumnavigandolo. Egli non è attratto, come Poe, dal vertice inumano che inghiotte fatalmente l’uomo annientandone ogni capacità di resistenza; è un ulisside della specie di Joyce; è però anzitutto un ulisside che affronta con ferma volontà chiarificatrice le prove più difficili e appassionanti di tutti i miti e tutte le storie del passato, per riconoscere in ognuna di esse la stessa volontà e capacità umana di affrontare il male per conoscerlo e di conoscerlo per dominarlo. Il nihilismo di Schmidt è nihilismo di uno scrittore colto, ma non è nihilismo compiaciuto. Schmidt ha conservato tutta quella carica di ribellione che i tedeschi antinazisti dovettero comprimere sotto il nazismo.
Così, dagli anni 70 e molto oltre, le due case editrici che facevano cultura si spalleggeranno nel più ottuso ostracismo: troppo nihilista per l’Einaudi infatti, Arno Schmidt lo era troppo poco per l’Adelphi. Ma la vecchia talpa ha ben scavato, e bene scaverà ancora.