E’ a partire dai primi anni sessanta che i rapporti tra fotografia e pittura iniziano decisamente a cambiare senso di marcia rispetto al passato. Nei primi anni sessanta, nel pieno di quella che viene definita cultura pop, il cambiamento non era ancora definitivo. L’oggetto artistico “manufatto”, il classico quadro, continuava ad essere il protagonista assoluto della scena artistica. Con l’affermazione dell’arte Pop, la necessità di confrontarsi con l’apparato teorico del mezzo fotografico, con la sua logica di funzionamento è giustificata dagli sviluppi complessivi che la riflessione sui media andava assumendo in quegli anni. Il saggio di McLuhan “Gli strumenti del comunicare” diffondendo il celebrato slogan “il medium è il messaggio”, impone di spostare l’analisi sui significati strutturali espressi dal mezzo stesso, anziché limitarsi ai contenuti comunicativi.
“La fotografia è per l’artista pop materiale bruto che entra a far parte della tela, prima sotto forma di collage e poi sotto forma di serigrafia e di riporto fotografico su tela”. Bisogna porre l’attenzione al tema dell’Estroversione, della mondanità, del rivolgersi alle cose per comprendere il tasso di estroversione presente nella Pop Art. Sfogliando un qualsiasi catalogo di Pop Art, tutto pare raccontato in modo ricognitivo e distaccato, senza alcuna pretesa di approfondimento psicologico. Nell’opera pop l’estroversione prevale decisamente sull’introspezione. Bisogna riconoscere che anche la fotografia è estroversa, strutturalmente estroversa. Essa ha infatti necessariamente bisogno di stare in faccia alle cose.
La fotografia è testimone della presenza di qualcuno davanti all’obiettivo perché tecnicamente, per generarsi, è appunto costretta a essere in presenza, funzionando da traccia, da impronta, da indice in termini semiotici. La tensione verso l’ambiente, il guardare fuori, nella Pop è atteggiamento che può benissimo essere svolto a “mano”, cioè utilizzando la sola rete sensoriale che ci appartiene per natura. Rifacendosi, alle teorie di McLuhan possiamo ipotizzare che proprio la forza plasmante della tecnologia fotografica di intensa estroversione è poi fatta propria dagli artisti. Un secondo punto di confronto sul quale riflettere riguarda l’ isolamento degli oggetti nelle opere pop: i barattoli di ministre, le bottiglie di Coca Cola, le icone pubblicitarie risultano sempre e considerevolmente separati del proprio contesto, l’artista fa il vuoto attorno all’oggetto. Un atteggiamento che rivela notevoli analogie con lo statuto della fotografia. Basti ripensare a come i Formalisti russi, nel negare l’artisticità della fotografia, facevano riferimento proprio alla povertà semantica, povertà dovuta all’isolamento degli oggetti entro i margini della stampa, così da escludere la possibilità di istituire relazioni e rapporti dinamici con altri elementi. Quanto sia fotografico un simile atteggiamento ci pare più che evidente, soprattutto se si fa riferimento all’idea di “straniamento” che la fotografia si porta dietro. Se infatti il processo basilare della fotografia riguarda l’esposizione alla luce di un materiale sensibile, occorre riconoscere che già il significato della parola “esporre” richiama alla mente l’idea del porre fuori, dell’isolare, evidenziando una vocazione straniante della fotografia a prescindere dall’intervento del fotografo. Procedimento analogo, che non si riscontra solo nella fotografia, lo ritroviamo anche pensando ad alcuni aspetti della letteratura.
Basterebbe in questo senso ricordarsi del magistrale effetto di straniamento sulle dimensioni fatto sperimentare, vivere e concretizzare a Gulliver da Jonatahan Swift nei suoi fantastici ed indimenticabili “Viaggi”, ma è altrettanto vero che la fotografia giunge, incredibilmente, come a democraticizzare tale possibilità, sottraendola al monopolio e all’eccezionalità dell’ethos dell’invenzione letteraria.