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Lo straniamento pop di C’è posto tra gli indiani giunge al Premio Strega

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Estraneo tra gli estranei. È estraneo persino a se stesso Marcello Mastronardi, l’eroinomane protagonista di C’è posto tra gli indiani, terzo romanzo di Alessio Dimartino, edito da Giulio Perrone e candidato al Premio Strega.

Selezionato tra i ventisette titoli, non rientra nella dozzina, ma non sembra scomporsi Alessio Dimartino, classe ‘82, già autore di Tutti vivemmo a stento (2010) e Il professore non torna a cena (2012). Il giovane scrittore vive con i piedi piantati per terra e del mondo editoriale, quello patinato, non subisce il fascino.

C’è posto tra gli indiani è la storia di un veterinario eroinomane che programma di suicidarsi senza riuscirci, interrotto dal suono del campanello di casa. Alla porta, un uomo elegante gli dà in custodia un cocker fulvo, in carne ma inappetente. Di quell’uomo e di quella consegna, Marcello non sa nulla. Da lì, con il cane al guinzaglio, ha inizio il suo viaggio nella notte, in una Roma underground, consumata di vite ai margini, bella e disperata.

Dal Pigneto alla Casilina, da via Alba a via Appia Nuova, passando per la Tuscolana e la Stazione Termini, Marcello percorre le strade romane, recupera ricordi, intrattiene conversazioni talvolta surreali con passanti, conoscenti, qualche vecchio amico. Si ritrova coinvolto in risse tra alcuni spacciatori per poi giungere a una veglia funebre, tra narghilè e birra speziata.

Un viaggio onirico, reale e allucinato al tempo stesso.

Un clochard non accetta la sigaretta che gli ha offerto dal pacchetto appena aperto: «No, questa prendila tu. Non mi piace scroccare la prima di un mazzo nuovo». Un uomo gli racconta delle sue performances da comparsa: «Nell’unico western al quale ho partecipato, m’hanno messo a fare l’indiano. Spiacenti, c’è posto solo tra gli indiani, m’hanno detto. Ma che c’ho la faccia da indiano, io?».

Prendere o lasciare. È un continuo bivio ad attraversare le vite dei personaggi. Marcello sembra riflettersi in ogni persona che incontra, come richiama la copertina del libro con un uomo che si specchia mentre si rade la barba. Un atto consuetudinario. E Marcello è un personaggio borderline che ha delle sue consuetudini: si buca una volta al giorno, la sera, prima di cena; si masturba guardando le foto della sua ex, Silvia, pubblicate sui social network. Altrettanto programmaticamente pianifica la sua morte.

Se fosse un film, sarebbe uno di quelli in bianco e nero, con il primo, il secondo tempo e i titoli di coda. Così è anche la struttura presentata nell’indice. Tre anche le voci narranti: la narrazione comincia in terza persona, sopraggiunge nel secondo capitolo un tu che si rivolge a Marcello e al lettore, si scivola poi nella prima persona, senza preavviso. Alternanza che si ritrova anche nella lingua. Parole ricercate (refoli, pertugi, facezie, masnada, buriana, arrocchita, bitta, profluvio, gragnola), si alternano a parole della Roma popolare (friccicore, benza, capoccia, scalcagnato, ciccato, incocciare, sfanga, appiccia), spesso nella bocca degli stessi personaggi.

Una Roma vivissima, reale e assurda, lontana dai riflettori. Dimartino la attraversa, la afferra, senza filtri, e ce la restituisce così, nuda, senza farla sembrare più bella di quella che è. Restituisce la mediocrità, la fuggevolezza, senza mai forzare la mano, senza accarezzare le debolezze dei personaggi. Quella di Dimartino è una scrittura dirompente, schietta, lirica nella sua crudezza, con una fame di verità che si rivela in ogni riga. Sarà un colpo di coda, una vocale per un’altra, a chiarire i tanti perché di Marcello. Il suo viaggio prosegue fino all’alba quando un cadavere galleggia sul Tevere. Se è di Marcello, sarà il lettore a scoprirlo.

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C’è posto tra gli indiani è il tuo terzo romanzo, dopo Tutti vivemmo a stento (2010) e Il professore non torna a cena (2012). Cosa lo differenzia dai primi due?

 Nel primo, ‘Tutti vivemmo a stento’, volevo dimostrare di essere bravo, duro, controcorrente. È un romanzo davvero brutto, caotico, pieno di volgarità fini a se stesse, figlio di un’irruenza giovanile senza i necessari filtri cognitivi. Il secondo, ‘Il Professore non torna a cena’, nasce dall’esigenza di raccontare una storia importante, che all’epoca mi premeva molto. Quest’ultimo, ‘C’è posto tra gli indiani’, è un romanzo molto intimo, personale mi è costato molto scriverlo in termini emotivi, ma sono anche molto soddisfatto di esserci riuscito.

Il libro si apre con una citazione di Blaise Pascal (“Che non si dica che non ho detto nulla di nuovo: la disposizione della materia è nuova”). Come mai questa scelta?

Sono un appassionato lettore dei filosofi poco ‘scientifici’, poco ‘sistematici’, quelli che distillano sapienza poetica dall’osservazione della vita vissuta, attraverso brevi brani di prosa, aforismi o apoftegmi. Pascal mi pare uno di questi.

Racconti di una Roma notturna, da largo Preneste a piazza Lodi, passando per via Alba e via Appia Nuova, c’è la Tuscolana e la Stazione Termini. Il libro sembra già un film…

Il cinema, a mio parere, è la forma d’arte che più ha contaminato (e che più riassume) tutte le altre. Non sopporto il tipo di scrittura ‘cinematografica’, quando con ciò s’intende l’appiattimento narrativo sul modello-sceneggiatura. Rimangono linguaggi profondamente diversi.

Si avverte un tempo sospeso e un gioco di contrasti tra la parte iniziale e lo sviluppo della storia: luce e buio, dentro e fuori, l’essere solo e poi improvvisamente in mezzo alla gente (come nella rissa). È un effetto voluto, immagino.

Assolutamente voluto, ma anche naturale. La scrittura si nutre di contrasti. Senza, si riduce a un’anoressica lista della spesa.

Il contrasto è presente anche nella lingua: da una parte parole ricercate come refoli, masnada, buriana, arrocchita, bitta, profluvio, gragnola; dall’altra, parole più popolari come friccicore, benza, capoccia, scalcagnato. Come hai lavorato alla scelta delle parole?

Questo è un aspetto del processo creativo molto consapevole, molto artigianale, anche se non so se ben riuscito. Mi piace l’idea di una lingua contaminata, meticcia, stratificata, con un certo spessore materico. E poi rispecchia in parte il mio modo quotidiano di esprimermi, anche se in C’è posto tra gli indiani la componente gergale è di certo predominante.

Il titolo nasce da uno dei tanti incontri notturni del protagonista. È come se ognuno cercasse il proprio posto nel mondo e faticasse a trovarlo, è così?

È la storia dell’uomo, dalla notte dei tempi a ‘L’isola dei famosi’. Che ci stiamo a fare qua? Qual è lo scopo? C’è uno scopo? Robe così.

Un continuo strizzare l’occhio al lettore (“E non guardarmi con quell’espressione finta accondiscendente”, “Vi ho avvertito, bisogna raccapezzarcisi, in questa storia qua”). Un espediente sempre più diffuso nella narrativa contemporanea.

Sì, è una soluzione abbastanza ‘piaciona’, lo ammetto. Però è allo stesso tempo molto coinvolgente a livello narrativo, se usata con criterio, cosa che spero di aver fatto. E poi è una bella sfida per lo scrittore: ehi amico, afferra per il bavero il lettore ma non obbligarlo a seguirti con la forza, fa che sia lui a muovere i piedi spontaneamente nella tua direzione.

Cosa pensi della narrativa contemporanea? Ne leggi molta?

Sì, ne leggo molta. Leggo molto di tutto, per la verità. Oggi in Italia c’è un buon numero di narratori di talento (i maestri Maggiani, Vassalli, Benni, i giovani e relativamente giovani Cognetti, Cavina, Longo, Archetti) che scrivono con una loro idea personale di letteratura e di mondo, ma come spesso è accaduto e accade, questi scrittori rimangono un po’ ai margini, sia dei piani alti che dei piani bassi. E pure dei medi. Bisogna farsi una passeggiata sui margini per trovare in terra qualcosa che abbia un valore e non solo un prezzo col codice a barre.

 

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