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Stefano Valenti: Bianciardi postmoderno

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 Un romanzo struggente e vitale, di lotta e sopraffazione, di panico e di acciaio, di ricordi e di emozioni costretti in un palmo d’inchiostro, in un rivolo di parole che diventano letteratura. “La fabbrica del panico” (vincitore gli scorsi giorni del “Premio Campiello Opera Prima 2014”) è un romanzo che non lascia tracce, ma lividi. Un romanzo capace di indagare, come pochi, il “panico” autobiografico dell’autore e di suo padre, per decenni operaio alla catena di montaggio alla Breda Fucine, la “fabbrica dell’amianto” di Sesto San Giovanni, che, nel silenzio più o meno generale, proprio nella “Stalingrado d’Italia” (com’era chiamata Sesto negli anni ’70) causò la morte di tantissimi operai per esalazione da amianto. Il protagonista, che è facile riconoscere nell’autore, inizia la sua narrazione dall’oggi: come un Luciano Bianciardi degli anni 2000 vive in una camera ammobiliata cercando di sopravvivere al “costo” della vita traducendo romanzi in una città come Milano dove esiste sempre un “prezzo”: “Una grande solitudine, non una solitudine naturale, ma una condizione di una città dove il lavoro è l’unico metodo per garantirsi una presenza nel mondo”. Originario della Valtellina “Me n’ero andato. Un arbusto sradicato da un bosco e interrato in un vaso sul balcone di una stanza in condivisione, a quattrocento euro a mese, oltre la metà di quello che guadagno”. Una metropoli prima conosciuta soltanto attraverso i ricordi del padre, arrivato a 19 anni quando “il mondo si presenta in forma di fabbrica”. E proprio al suo ritorno in paese, dopo una vita di lavoro e di lotte sindacali, il padre è devastato dal cancro in una valle che ha sempre dipinto, sin da giovane pittore, in quadri che Stefano Valenti traduce in un ritratto di poche righe: “L’Adda corre al centro della Valtellina, dividendola in due come un coltello d’acqua, dividendola per davvero, una riva nella luce, l’altra nell’ombra, una fredda, l’altra nel caldo, una nella vita, l’altra nella morte”. Seguono passaggi di rara intensità anche per chi non ha attraversato una “malattia incurabile” (come oggi è definita nel linguaggio giornalistico), dopo “una lunga malattia” (come si legge nei necrologi), come se si avesse paura di pronunciare la parola cancro. Un padre che “vive in solitudine e, a differenza di altre persone che conosco, a cui accade spesso di mentire per convenienza, lui, in fin di vita, pronuncia l’ineffabile verità, il fastidio provato in presenza di altri esseri umani. Fatta eccezione per mia madre, l’essere che è parte integrante della sua vita, l’essere grazie al quale tutte le cose accadono, gli altri sono diventati un’inutile, fastidiosa presenza a cui cerca di rinunciare”. Perché, continua Valenti, “Mio padre ordina le difese, accetta – in nome di una presunta dignità della sofferenza- la prigione in cui lo ha costretto il dolore, così come ha accettato la condizione del lavoro salariato, un tempo lavoro servile, un tempo lavoro schiavistico, così come ha accettato la malattia che ha respirato e che adesso lo uccide”. Un lutto che il protagonista non riesce a superare, ma che rielabora incontrando Cesare, un compagno sindacalista del padre grazie al quale ricostruisce la vita di un uomo che ha fatto la quinta elementare, ma da sempre si è battuto contro le ingiustizie del mondo. Perché “in catena di montaggio non nascevano amicizie. Il rumore, il regolamento. La turnazione. L’attività politica era l’unico modo per conoscere altri essere umani sottoposti ai tempi delle fabbriche”. Come scrive Valenti, “La fabbrica è una condanna senza reato. Esiste un prima e un poi per chi è stato condannato alla fabbrica, un prima della fabbrica e un poi nella fabbrica”. E non sono dunque sbagliati i parallelismi, in terza di copertina, con il purtroppo dimenticato Paolo Volponi che nel suo “Memoriale” pubblicato nel 1962 (e oggi unica sua opera disponibile nel catalogo Einaudi) scrive: “La fabbrica non perdona: non perdona chi è solo, chi non si arrende al suo potere, chi crede alla giustizia umana e invoca la sua clemenza”. Un Paolo Volponi che, insieme a Ottiero Ottieri, Libero Bigiaretti e Luigi Di Ruscio (la cui opera è stata recentemente riscoperta grazie a Feltrinelli nella raccolta “Romanzi”), hanno contraddistinto la “letteratura industriale”, che contraddistinse gli anni ’50 e ’60.  Perché, come sottolinea sempre Volponi, ne “Il leone e la volpe”  ormai “siamo infettati, contaminati, appestati. E corriamo”. Stefano Valenti ha avuto il coraggio di fermarsi, di indagare, di documentarsi e di portare alla luce una storia “qualunque”, ma capace di descrivere un mondo che, purtroppo, non è ancora scomparso. Perché ancora oggi la vita (basti pensare all’Ilva di Taranto o alla centrale a carbone di Vado Ligure) più che a termine, è terminale.

Stefano Valenti
La fabbrica del Panico
(Feltrinelli, pp. 120, euro11)

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