PERCORSI LATERALI : “ Ancora oggi la mia passione per i cavalli di quel pelame non è scemata e provo sempre lo stesso piacere a vederne uno che ritorna tutti gli anni nelle vie di Monaco. Compare quando si cominciano a innaffiare le strade. Sveglia il sole che vi è in me …E’ immortale. Il cavallo trascina l’artista con forza e velocità, ma il cavaliere guida il cavallo. Il talento trascina l’artista , ma l’artista conduce il suo talento ( V. Kandinskij).
Kandinskij è l’unico modo che mi appartiene per introdurre e legare un mondo fino a qualche tempo fa, e ancora adesso sconosciuto, ma poi nemmeno tanto. Parliamo di cavalli, di saga, di spettacolo equestre. Di Corte, nello specifico Corte Transumante di Nasseta. Parliamo di Giovanni Lindo Ferretti. E la frase “sveglia il sole che vi è in me” mi ha sempre dato un’immagine imponente di come il cavallo fosse qualcosa di essenziale e principale, legato alla vita e alla rinascita dell’uomo, al ricordo e al ritorno a casa, alle origini. Questa frase di Kandinskij prendetela e portatela come fosse titolo di una foto presente alla mostra “ Tracce barbariche al castello di Sarteano” (esposizione fotografica della Corte Transumante di Nasseta, dal 20 luglio al 17 agosto. Foto di Alessandra Matia Calò e Andrea Grassi con testi di Michele Rossi) che immortala Giovanni Lindo Ferretti poggiato con il suo mento sul rostro (non so come si chiamano e narici del cavallo cercale) del cavallo. La serenità e l’umanità in tutta la sua purezza che si vede attraverso questa foto, destabilizza chi la guarda. Sembra amore, e lo è.
PREMESSA E DIVULGAZIONI POPOLARI di Michele Rossi
“Sono cresciuto e vivo sperando di essere sorpreso dalla vita. Devo ammettere però che questo mio ultimo libro, la doppia biografia su Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni che ho scritto con infinita passione dedicandoci tanti anni e passandoci notti insonni, è stata una sorpresa per me stesso. Lo confesso senza pudore: è stata un’esperienza totalizzante che mi ha fatto realizzare dei sogni, ha fatto accadere delle cose fino a qualche anno fa, mese fa, erano inimmaginabili, qualcosa di assolutamente impensabile, te lo assicuro. Proprio oggi ho sentito Massimo (abbiamo aperto un bellissimo dialogo da anni) e ho inaugurato in questi giorni nel castello di Sarteano, nella campagna senese, un’esposizione fotografica con Giovanni e la Corte Transumante di Nasseta, la sua compagnia equestre. Chi l’avrebbe mai detto… Sta in questo la meraviglia del vivere. Nella piazza d’armi di questo suggestivo posto medievale il prossimo agosto Giovanni terrà l’anteprima assoluta del suo nuovo spettacolo equestre (Partitura per voce, cavalli, incudine, con mantice e bordone). Io ho scritto dei testi inediti per la mostra fotografica da me curata con la Corte. Spiego chi sono i due nuovi compagni di avventura di Giovanni (la signora della Corte, Cinzia Pellegri, e il signore dei cavalli, Marcello Ugoletti), geniali e sorprendenti quanto lui, ma soprattutto il messaggio lanciato dal teatro equestre e il significato che conserva ancora il cavallo per loro. Giovanni mi ha portato il papiro del salvacondotto della Corte Transumante di Nasseta. Un grande onore per me… Come hai intuito Graziella, l’incontro con Giovanni e Massimo è uno di quelli che ti portano fuori strada, dalla strada più sicura e scontata, dai margini tracciati dalla famiglia e dagli studi. Questo almeno per me. Voglio dire che i due artisti mi hanno fatto uscire dalla via più semplice e prevedibile dell’esistenza. Perché il loro è un pensiero dinamitardo volto ad afferrare il senso ultimo dell’esistenza. Siamo molto diversi, ma ciò che mi accumuna a loro è il rimuginare il senso dell’esistenza e la ricerca incessante, continuativa, della mia dimensione essenziale.Negli ultimi anni mi sono molto avvicinato a loro e alla loro vita privata. E qui taccio. A chi interessa poi sapere che l’ultima cavallina di Giovanni si chiama Neasseta Renna, che è figlia di L’Una, figlia di Sparta, figli di Nubia, una genealogia che ha segnato il vivere di Giovanni? Nubia l’aveva comperata assieme a Giada, per suggellare il suo ritorno a Cerreto Alpi; Sparta era nata mentre stava crollando il Muro di Berlino e l’ideologia comunista; L’Una con il nuovo millennio e la separazione artistica da Zamboni.
E a chi interessa avere notizie dei campi coltivati a farro e a mais otto-file da Massimo, della sua meravigliosa casa adagiata tra due boschi di castagno e di quercia, oppure del suo pascolo recintato per le pecore e l’asina, che l’ha chiamata, pensate un po’, Patria del Ribelle? Nome bizzarro, non credi? Lui è un punk… Oggi Massimo si è fatto coltivatore: possiede frutteti, una vigna e un maroneto. E tutto nella sua casa di montagna è in perfetto ordine, gli assomiglia.
Amore di Giovanni Lindo Ferretti per i cavalli
“ Giovanni proviene da una famiglia di allevatori che per generazioni e generazioni ha allevato animali e ha vissuto circondata da boschi, pascoli e monti. Con la morte improvvisa di suo padre, la madre che lo portava ancora in grembo, per non abortire (nonostante le pressioni ricevute da molti in tal senso) e poter mantenere lui e il fratello più grande, vendette tutto il bestiame e si trasferì in città. Penso che il ritorno agli animali sia un modo per Giovanni di riappropriarsi della sua tradizione familiare. Comunque, se ci si pensa bene, oggi Giovanni fa le stesse cose che facevano i suoi progenitori: se questi erano campati con il bestiame, lui “pascola parole e alleva pensieri” (non a caso è stato il titolo di un suo recital degli anni passati), anziché ricotta e forme di pecorino vende dischi e emozioni in musica. I suoi avi avevano praticato la transumanza? Bene, lui discende periodicamente dal crinale per esibirsi in pubblico, e invece di trascorrere le serate d’inverno nella stalla con i compaesani a scandire a memoria i passi dei classici della letteratura italiana fino al sopraggiungere del sonno come si usava fare in passato, lui ne perpetua l’usanza declamando in pubblico i suoi pensieri e facendo il cantore.
La libertà è una forma di disciplina: “Giovanni e Massimo mi hanno fatto capire che il compito della musica è prima di tutto quello di raccontare, interpretare e anticipare il gioco della vita. Sono stati un sprone ad ampliare il mio sguardo, a complicare il mio pensiero. Quali sono stati gli insegnamenti che mi hanno trasmesso? Beh, ho capito l’importanza di giocare d’istinto. Poi che è l’instabilità che ci fa saldi negli sgretolamenti quotidiani. Che occorre essere attenti per essere padroni di se stessi. Ma anche che la disciplina è una necessità vitale quanto un bisogno estetico, e se perdiamo la bellezza non esiste possibilità di futuro. Ah dimenticavo forse la cosa più importante: che rimanere fedeli alle linea richiede un enorme sforzo soprattutto quando la linea non c’è.
Epica Etnica Pathos
“Saga, il canto dei Canti” è un’opera permeata di spiritualità e intellettualità. È racconto, epica, è la storia dell’Appennino tosco-emiliano dove Giovanni è tornato a vivere. È, quindi, una risposta a una domanda che riguarda i cavalli e la loro montagna, i cavalli che allevano e le montagne in cui abitano. In qualche modo sono stati questi cavalli e queste montagne a far sì che nascesse in Giovanni, Cinzia e Marcello l’esigenza di raccontare tramite i cavalli la storia di questo pezzo di mondo, dalle origini ai giorni nostri. Saga è uno spettacolo “romantico e coraggioso” come dice Giovanni. Vero. Io aggiungerei folle e di una potenza emotiva e bellezza da lasciar senza parole “.
Punk: definizione per un mondo di illusi al contrario. Ricordatevi che siamo tutti vivi, diceva Joe Strummer. Forma e Sostanza
Te come definiresti il punk, Graziella? Per me punk significa disinvoltura nel decidere di mettere in atto i nostri sogni, totale indifferenza alla tecnica e al giudizio degli altri. Il punk è fondamentalmente un atteggiamento di vita, un approccio ruvido e diretto, dove non conta come lo si dice ma quello che si dice. Detto meglio, il punk è un’illuminazione, come scrivevano nei loro volantini i CCCP, un invito alla riflessione, è sfrontatezza, rivendicazione dell’autenticità e della necessità. Giovanni, ma questo vale anche per Massimo, non sono punk anche oggi? Giovanni è conosciuto ai più come il fondatore, assieme a Massimo, della band punk filosovietica CCCP Fedeli alla linea: una band dissacrante e provocatoria, l’ultima avanguardia artistica del Novecento italiano, come ho scritto anni fa all’interno di una rivista monografica che aveva per tema le avanguardie italiane. I CCCP con la loro carica estetica, la loro genuina teatralità ruppero in maniera radicale con i canoni musicali imbolsiti e merlettati. Sono stati un modo diverso di cantare in italiano e pensare la canzone. Erano pura provocazione, a cominciare dall’accostamento che facevano del punk all’Islam, al comunismo e alla musica emiliana. La cosa più destabilizzante che la nostra musica abbia mai osato partorire. Ma anche teatro istintivo, viscerale e selvaggio.
E il teatro equestre che c’entra con tutto questo? Giovanni ama ripetere che il teatro equestre è la cosa più punk e vitale che abbia mai fatto, che è un vero giro di boa, un ricominciare la stessa cosa fatta negli anni Ottanta, ma vista da un’angolazione diversa. Riflettiamoci un attimo: il suo teatro equestre ha la stessa potenza dei CCCP. È un teatro contemporaneo anomalo, per collocazione geografica (sono tutti e tre dell’Appennino), stilistica e culturale, qualcosa di mai visto prima. Loro lo autodefiniscono “teatro barbarico montano”. È teatro a tutti gli effetti perché nasce da libretti d’opera ed è tutto giocato tutto sugli elementi della Creazione; barbarico perché messo in scena senza nessun artificio scenico ma solo con dei cavalli; montano perché concepito da lui e Marcello Ugoletti (il signore dei Cavalli) e Cinzia Pellegri (la signora della cura e dei giorni) sui monti e perché è uno spettacolo che trae vita dai paesaggi appenninici e dai cavalli di quelle terre. Il loro teatro ha una vitalità esplosiva ed è ricerca di un soffio vitale. Marco Belpoliti in un recente saggio sui CCCP ha scritto che la loro forza non era nel detto, bensì nel non detto. Anche la forza del teatro equestre sta nel non detto. Tutto torna, vedi?
Il Signore della Parola (Giovanni Lindo Ferretti). La Signora della Corte (Cinzia Pellegri). Il Signore dei Cavalli (Marcello Ugoletti)
Spiegando l’operato artistico della Corte, Giovanni ama ripetere che il loro teatro equestre è “il restauro di un’opera d’arte” che ci è stata consegnata dalla storia e che loro cercano di salvaguardare offrendola al futuro. Il loto teatro equestre è il tentativo di recuperare e conservare un’opera d’arte che racchiude in sé tutte le discipline umanistiche: musica, poesia, storia, letteratura, filosofia, teologia, scienza. È una tela pittorica all’interno della quale, attraverso il recupero del rapporto storico-mitologico uomo-cavallo, tentano di salvare ciò che resta dell’umanesimo, perché salvifico e perché residuo che ha attraversato la storia e il tempo restando in qualche modo intatto, indenne, ha dimostrato una resistenza che ne rende preziose le briciole che in qualche modo il teatro rappresenta, riassume ed evoca (non rievoca) attraverso messaggi che permettono una molteplice chiave di lettura ma hanno una unica finalità: mettere in luce, riportare alla luce. Per compiere questo restauro, usano la potenza evocativa della parola, che è suono e senso che, rifuggendo l’impegno e la denuncia, si fa canto epico, ma anche una musica che sostiene e amplifica questo racconto che affiora dai millenni. Prendiamo lo spettacolo Saga, il loro spettacolo maggiore. È uno spettacolo vivo, perché segue il naturale susseguirsi della nascite e della crescita dei cavalli, ma anche le nuove collaborazioni artistiche. È in divenire, muta e si accresce ogni anno, e cambia di conseguenza anche il ruolo della musica. Il primo anno, nel 2012, la musica era imponente e decisiva perché doveva sostenere uno spettacolo fatto di sedici cavalli e solo da quattro cavalieri, cioè tanti cavalli e pochi cavalieri. Le sinfonie di Lorenzo Esposito Fornasari (un ex allievo di Giovanni della sua Bottega di Bologna e oggi cantante sperimentatore dei Bersek) e la sua presenza in scena supplivano l’esiguo numero di cavalieri e il grado di addestramento dei cavalli. Tre anni fa, quelli che oggi sono i cavalli di punta della Corte (Socrate, Scricciolo, Enea e Ugolino), avevano appena iniziato l’addestramento, erano ancora troppo “crudi”, come si usa dire in gergo tecnico. Nella seconda messa in scena di “Saga” è venuta a mancare la voce e la presenza scenica di Fornasari. Di contro è stata spogliata la musica, che poi non è che un mezzo, un supporto del teatro, invece i cavalli erano pronti e i cavalieri, cresciuti di livello e di numero, avevano bei costumi e splendide armature che rendevano la scena più teatrale. Insomma nel 2013 hanno compiuto un passo decisivo verso la definizione scenica del teatro equestre. Quest’anno è stato diverso. In gran parte è scomparso l’artificio tecnologico della musica su tracce registrate e hanno scelto degli strumenti antichi (la ghironda, l’organetto e la zampogna) suonati dal vivo dal pluristrumentista Paolo Simonazzi (il “signore della musica antica”), e hanno aggiunto un soffio bizantino preregistrato proveniente, pensa te Graziella, dall’Antica Accademia di Arti Sufi di Costantinopoli. Ma la musica che oggi la fa da padrona nello spettacolo è quella degli zoccoli e dei nitriti dei cavalli. In un quadro dello spettacolo (lo spettacolo si compone di quadri) si sente il suono di magici e millenari campanelli messi al collo di un cavallo che ne decide con i suoi soavi movimenti la sonorità; in un altro quadro entra in scena Marcello con un microfono posizionato su un cavallo per fare sentire a tutti il respiro dell’animale.
Appennino e cavalli maremmani
cavalli maremmani sono da tutti considerati animali grezzi e ombrosi, senza valore dal punto di vista spettacolare. Tuttavia incarnano la storia della gente di montagna che nei secoli è sopravvissuta transumando annualmente con le greggi dall’Alpe alla Maremma toscana. La Corte porta in scena questa razza perché vuole valorizzare questa storia millenaria, ma anche perché vuole sfatare la brutta fama che siano una razza indomabile e intrattabile. È volontà di Giovanni, ma anche di Cinzia e Marcello, di richiamare l’attenzione su un mondo, quello appenninico, che sta scomparendo.
Storia d’Amore: Il cavallo e la letteratura
Il loro progetto equestre ha una vera e propria valenza letteraria: intende trasmettere un sistema sapienziale e culturale che, come ho già spiegato, il rapporto uomo-cavallo ha cumulato nel corso del tempo. Ripensare il rapporto uomo-cavallo è difatti per loro ripercorrere la storia della civiltà, scoprire che molto di quello che sembrava essere definitivamente scomparso continua a vivere. Perché non è vero che le antiche arti sono scomparse, possono ancora fiorire ma necessitano di un contesto in cui presentarsi. Ecco: la Corte è questo contesto. Si prefigge di trasmettere e salvaguardare questo patrimonio. La Corte tenta di salvaguardare e rendere futuribile quella parte di tradizione che rende l’uomo tale, nella sua accezione più alta. Hanno scelto il cavallo per trasmettere questo messaggio perché gli equini permettono all’uomo di elevarsi, non solo fisicamente. Questi meravigliose creature animali possono essere un argine allo sgretolamento, alla dissoluzione terminale di un paesaggio storico e culturale, perché “un cavallo – come dice Ferretti – possiede un forma di empatia per cui tu puoi fregare gli altri uomini ma non il tuo destriero”. Il loro non è solo teatro equestre quindi, ma un’altisonante messaggio che arriva dritto al cuore. Un consiglio. Se volete saperne di più cavalli e non volete cominciare dai classici, come L’arte equestre di Senofonte e dai frammenti del trattato sull’Arte equestre di Simone d’Atene, leggetevi almeno il libro di Paul Vigneron Il cavallo nell’antichità. Se invece volete sapere qualcosa sui cavalieri una lettura obbligatoria è il libro di Franco Cardini Alle radici della cavalleria medievale, e riprendete in mano il ciclo di Re Artù, rileggete l’Orlando innamorato del Boiardo e l’Orlando furioso di Ariosto fino ad arrivare al Don Chisciotte della Mancia. Se la lettura non è la vostra passione, fermatevi al capitolo “C coma cavallante” del libro di Giovanni, Bella gente d’Appennino.
La mostra fotografica e “una giornata “ a Corte al servizio del cavallo
L’idea della mostra fotografica di Sarteano mi è venuta condividendo all’inizio di questa estate per una settimana intera il bivacco della Corte Transumante di Nasseta, durante lo spettacolo tenuto, come ogni anno, nei chiostri benedettini di San Pietro a Reggio Emilia. Ho vissuto forti emozioni e sensazioni irripetibili, ricavandone aneddoti e riportando a casa anche curiosità (Giovanni una sera mi ha raccontato delle sue ricette di cucina, un’altra mi ha descritto la città di Reggio). È stato in quei giorni che ho afferrato appieno il messaggio che vogliono trasmettere con i loro spettacoli e dove mi aveva portato il mio pellegrinaggio. Durante il viaggio di ritorno in autostrada verso Firenze (era notte fonda, e la notte di San Giovanni, ora che ci penso), ho riflettuto molto su quel mix di fatica, potenza sonora e forza delle parole che avevo vissuto da vicino. Ci avevo pensato a lungo nei mesi passati, ma in quei giorni erano maturate dentro di me le parole giuste per descriverlo. Mi sono reso conto che seguire le tracce della Corte è iniziare un nuovo cammino, è la ricerca della divina scintilla che abita l’uomo. Dopo due giorni ho chiamato Cinzia e le ho detto: “Organizziamo una mostra al Castello di Sarteano prima del vostro prossimo spettacolo?”. Il Sindaco ha accolto con entusiasmo la mia proposta. Ho deciso di chiamarla “Tracce barbariche”. Tracce per il duplice significato che ha il termine: le fotografie sono tracce fotochimiche, ombre e luci impresse su carta sensibile, ma in questo caso anche impronte umane di alto spessore artistico, orme e segni di visioni. Chi andrà a vedere la mostra, capirà cosa voglio dire. Gli scatti fotografici sono della bravissima artista Alessandra Matia Calò e di Andrea Grassi, che collabora con la Corte oramai da anni.
Il cavallo è un simbolo
Il cavallo non è un simbolo, al contrario è l’antitesi di ciò che il XXI secolo considera simbolico. Il cavallo, come Cinzia mi ha spiegato più volte, è un tramite, una ragione fatta di sangue e carne che impone disciplina quotidiana, fatica, dedizione, grande attenzione, una ragion d’essere che mette in discussione la supremazia dell’uomo sul resto: cosa sarebbe stato dell’umanità senza l’aiuto del cavallo? Portatore sano di storia, il cavallo, nella sua silenziosa differenza e supremazia fisica sull’uomo, ne è diventato complice ed alleato. Si è aperta una nuova possibilità per ambedue, di cui ancora non ne è stata scritta la parola fine. È vero, dagli anni Cinquanta del secolo scorso gli equini hanno però perso la loro funzione storica e sembra che l’uomo non abbia più bisogno di loro. Ma i cavalli possono essere un argine allo sgretolamento, alla dissoluzione di un paesaggio storico e culturale. Nel suo libro Bella gente d’Appennino pubblicato per Mondadori nel 2009, in una bella pagina Giovanni scrive: “I cavalli sono per me una necessità materiale, benessere fisico e psichico, un legame vivente con la storia, il piacere dei giorni presenti. La stalla è mio rifugio e via di fuga.
Incombere umorale degli affetti del sangue, incombere umorale delle idee delle istanze. Insolente promessa sciocca vacua solenne di bastare a sé.
Giovanni probabilmente ti risponderebbe che non può tornare su un palco perché fare il cantante è stato un suo errore di percorso di vita. Doveva in realtà fare il pastore come i suoi avi. Ti leggo questo: «Se potessi decidere della mia vita a ritroso, in assoluta libertà senza nulla concedere ai tempi, agli accadimenti sociali, cosa ovviamente impossibile ma non impensabile nella intimità di un cuore ed un’anima, vorrei essere come mio padre, mio nonno, i miei bisnonni, tutta la sequela delle generazioni che mi hanno preceduto: vorrei essere pastore allevatore» (presentazione di Saga del 2013). Oggi si considera un presidio residuale: una specie cioè di inutile presidio di una civiltà scomparsa, e si sente un residuo per quanto riguarda la sua vita, essendo conosciuto come il cantante dei CCCP, o dei CSI e PGR. Io ti dico invece che il mio libro ho fatto accadere dei miracoli, che non puoi neppure immaginare.
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Il mio Prof di Filosofia ai miei “se potessi, se avessi potuto” rispondeva sempre che la Storia con i se e con i ma non si fa. Quella di Giovanni Lindo Ferretti è stata appunto un’altra storia.
In fondo poi Giovanni Lindo Ferretti l’ha trovata la linea, lo sa e se non lo sa basta prendere in considerazione “Lirica” di Kandinskij dove non c’è profondità né paesaggio. Solo una superficie solcata da una linea nera ruggente. Quella linea è il cavallo.
Michele Rossi è autore di “Quello che deve accadere accade. Storia di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni”. A lui ringraziamenti personali di cuore e anima per strade riprese senza tener conto del buio o della luce. I punk ci vedono sempre.
Graziella Balestrieri