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LA NON BANALITà DEL MALE

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Il giorno 6 marzo 1801, anno IX del mese Ventoso se stiamo al calendario rivoluzionario, il Marchese de Sade viene tratto in arresto. L’accusa, che coinvolge anche il suo editore dell’epoca, Nicolas Massé, riguarda alcuni scritti, considerati d’oltraggio alla morale pubblica. Ne seguiranno venticinque anni tra manicomio e galera. Tra quei manoscritti, figurano anche le pagine della Nouvelle Justine. È singolare notare che, ancora nel 1976, ben dopo la pubblicazione con falsa data e falso luogo di edizione dell’opera di Sade, Paolo Caruso, curatore delle sue Opere per i Meridiani Mondadori, in una nota si sia trovato in qualche modo costretto ad avvertire i lettori che nel volume “non si sono potuti includere alcuni titoli fondamentali dello scrittore – come Le 120 giornate di Sodoma, la terza stesura di Justine, o Juliette – perché un’operazione editoriale così audace sarebbe ancora, in Italia, prematura”. Sia come sia, è proprio su uno di questi testi, La Nouvelle Justine, ou les Malheurs de la vertu, che Michel Foucault imposta le due conferenze tenute nel mese di marzo del 1970 all’università di Buffalo, nello stato di New York. “Mi baserò essenzialmente sul testo di Sade”, osserva Foucault. In particolare, “su uno dei suoi ultimi testi, quello chiamato La Nouvelle Justine, riedizione molto ampliata, in dieci volumi, dell’Histoire de Justine alla quale Sade ha poi aggiunto L’Histoire de Juliette ou les prospérités du vice”. Non è indifferente che, in un periodo in cui sarebbe stato più agevole esercitare una lettura e una funzione critica su testi relativamente più noti come La Philosophie dans le boudoir o Les 120 journées, Michel Foucault scelga il confronto con un lavoro che, pubblicato a Parigi (ma con la classica indicazione di luogo “Olanda”) nel 1799 (ma ante datato al 1797) vede i dieci volumi di cui si compone “interamente, integralmente posti sotto il segno della verità”. Che cosa significhi porre la scrittura sous le signe de la verité e di una spiazzante stenografia del desiderio è ancora tutto da scoprire. Foucault ci offre però degli indizi. E lo fa scavando tra le funzioni all’opera nel testo di Sade. Così procedendo si accorge di una funzione latente, quasi impercettibile nella mole sterminata delle pagine, se la lettura viene affidata a logori schemi freudiani. Schemi da cui – al pari di quelli di Herbert Marcuse – sul finire della seconda conferenza, Foucault invita a tenersi a debita distanza. Oggi che le opere di Sade hanno superato ogni censura tranne quella della loro sovraesposizione, l’analisi di Foucault ci riporta al punto di partenza: dovremmo infatti, osserva, chiederci “che” cosa e non solo “chi” sia, fondamentalmente, l’individuo che scrive. Il che implica la seconda domanda su “che” cosa sia, e non solo “chi” sia l’individuo che legge. Al pari di criminali e vittime all’opera nel teatrino antropologico di Sade, anche scrittori, lettori e scriventi sono forse null’altro che uomini cavi. È la risposta – tremenda, abissale – che fuoriesce dalla lettura di Sade. Posto davanti allo specchio che rifletta i più cruenti tra i suoi desideri, ponendosi la consueta domanda, allo scrittore che scrive, al lettore che legge, ma soprattutto all’individuo tout court non resterebbe infatti che osservare un esile movimento di ombre. E allora forse intenderebbe la risposta: “l’individu lui-même n’existe pas”.
Marco Dotti
 
 
LA NON BANALITà DEL MALE
Perché scriveva Sade? Cosa poteva significare, per Sade, l’esercizio della scrittura? Dagli elementi biografici che abbiamo su di lui, sappiamo che ha riempito di inchiostro migliaia di pagine, molte più di quelle che si sono salvate. Una quantità ragguardevole si è persa, ogni qualvolta Sade è stato imprigionato. Sade scriveva, infatti, su pezzetti di carta che gli venivano regolarmente sequestrati. È così che ha redatto Le 120 giornate, alla Bastiglia, terminandole credo nel 1788-89. Quando la Bastiglia venne espugnata dai rivoluzionari, quelle pagine gli furono confiscate. Ecco il lato oscuro della presa della Bastiglia: la sparizione de Le 120 giornate del Marchese. Fortunatamente queste pagine vennero ritrovate, ma solo dopo la sua morte. Al tempo, per quella “perdita”, Sade versò, è lui stesso a ricordarcelo, “lacrime di sangue”. L’ostinazione che Sade ha posto nella scrittura, le sue lacrime di sangue unitamente al fatto che ogni volta che pubblicava un libro veniva sbattuto in galera – ecco, tutto ciò prova che Sade attribuiva alla scrittura un’importanza ragguardevole. Con il termine “scrittura” non bisogna intendere il mero fatto di scrivere, ma il fatto di pubblicare. Poiché – ricordiamocelo – Sade pubblicava i propri testi. E se la fortuna voleva che, mentre li pubblicava, egli fosse fuori di prigione, ciò non impediva che fosse arrestato non appena quei medesimi testi fossero pubblicati. E il tutto proprio a causa della loro pubblicazione.
Da dove viene dunque la serietà della scrittura in Sade? Io credo che a un primo sguardo sia dovuta a un fatto, a più riprese espresso in Justine e Juliette. Sade si rivolge ai lettori non in ragione del piacere che i suoi racconti possono provocare in loro, ma proprio per ciò che di sgradevole può esservi narrato. Lo dice chiaramente: “Non avrete di che provare piacere, ascoltando il racconto di storie tanto raccapriccianti. La virtù punita, il vizio ricompensato, bambini massacrati, ragazzi e ragazze fatti a pezzi, donne incinte impiccate, interi ospedali dati alle fiamme. La vostra sensibilità sarà rovesciata, il vostro cuore non ne potrà più. Ma che cosa volete che vi dica? Non è alla vostra sensibilità, né al vostro cuore che mi rivolgo. Mi rivolgo alla vostra ragione – ad essa solamente. Voglio dimostrare una verità fondamentale, ossia che il vizio viene sempre ricompensato e la virtù punita”. Si pone però un problema. Quando seguiamo un romanzo di Sade, ci accorgiamo che non c’è assolutamente logica nella ricompensa del Vizio e nella punizione della Virtù. In effetti, ogni qualvolta Justine, che è virtuosa, viene punita, la punizione non dipende mai dal fatto che abbia commesso un errore di ragionamento, che non abbia previsto qualcosa o sia stata cieca nei confronti di una talaltra cosa. No, Justine ha calcolato perfettamente tutto, ma le capita sempre una qualche terribile sventura. Sventura che attiene all’ordine del caso e come tale la punisce. Justine salva qualcuno? Bene, quando l’ha tratto in salvo, finisce per massacrarlo. Massacra colui a cui ha appena salvato la vita. Qui è il caso, sempre il caso, che interviene, mai la conseguenza logica dei suoi atti. E questo caso determina la punizione. Lo stesso avviene, d’altronde, anche nelle Prospérités du vice. Sade ha messo all’opera un sistema d’intrecci, di eventi arbitrari, ma li ha combinati in modo tale che il Vizio ne risulti sempre ricompensato e la Virtù punita. Ma se in questo sistema disponessimo gli accadimenti secondo un ordine diverso, rispetto a quello del testo, i risultati non cambierebbero. Quando Sade afferma di indirizzarsi “non al vostro cuore, ma alla vostra ragione” non è dunque in questione la razionalità del Vizio, né della Virtù. Sade non si prende seriamente, qui. Ma allora, che cosa vuole fare quando pretende di indirizzarsi alla nostra ragione, mentre l’ossatura del racconto si rivolge a tutt’altro orizzonte? Credo che per capirlo occorra riprendere un passaggio – il solo, in Justine e Juliette – che si riferisce allo scrivere. Juliette si rivolge a un personaggio, a un’amica già perversa, ma non totalmente perversa. Non ancora almeno. Qui si tratta di fare l’ultimo apprendistato, di salire l’ultimo scalino della perversione. Ecco i consigli di Juliette: “Rimanete quindici giorni senza occuparvi di lussuria. Distraetevi, divertitevi con altre cose, ma fino al compimento del quindicesimo giorno non lasciate il minimo spiraglio alla più piccola idea libertina. Poi coricatevi, da sola, nella calma, nel silenzio e nell’oscurità più profonda. Ricordatevi allora di tutto ciò che avete bandito in quei quindici giorni. Date poi alla vostra immaginazione la libertà di presentare differenti modi di pervertirvi. Percorreteli nel dettaglio. Passateli in rassegna. Persuadetevi che tutta la terra vi appartiene e avete il diritto di cambiare, mutilare, distruggere, rovesciare qualunque essere. […] Il delirio si impossesserà di voi. Accendete allora la candela e trascrivete sui fogli la specie di smarrimento che vi ha infiammato, senza dimenticare alcuna circostanza che aggravi i dettagli. Addormentatevi, dopo averlo fatto. L’indomani, rileggete le note e ricominciate l’operazione”.
Ecco dunque un testo che chiaramente ci mostra un modo di usare la scrittura. Un uso chiaro delle scrittura. Si parte dalla libertà totale assegnata all’immaginazione, si scrive, ci si addormenta, si rilegge, si procede con un nuovo lavoro dell’immaginazione, si passa a una nuova elaborazione per mezzo della scrittura e infine, come dice Sade, alla maniera di una ricetta culinaria: “Commentate…”. A proposito di questo testo, vanno sottolineate tre cose. Prima cosa: la scrittura è lontana dall’essere lo strumento di comunicazione razionale di cui Sade ci ha parlato altrove. La scrittura è una tappa nella costituzione di una pratica sessuale. Seconda cosa: verosimilmente, questa ricetta di scrittura, di scrittura puramente erotica è quella grazie alla quale Sade ha scritto i propri testi. Ciò che Juliette ci dice è, verosimilmente, ciò che Sade ha fatto durante i suoi quarant’anni di reclusione. Tutte le mattine, ogni notte. La scrittura descritta è quella dei suoi libri, la scrittura delle sue solitarie frenesie. Terza cosa: questa descrizione del ruolo della scrittura la ritroviamo, traslata ma assai fedelmente ricopiata, in un altro suo testo non bloccato dalla censura del tempo, le Idee sul romanzo. Sade “autentica” lo stesso testo e la sua pratica di scrittura, affermando che il romanziere deve buttarsi a capofitto nel ventre della natura come qualcuno che, essendo l’amante di sua madre, si piombi sul corpo della madre stessa. Il romanziere è dunque il figlio incestuoso della natura, che si concede a madre-natura come il personaggio e si libera alla sua immaginazione. Una volta buttatosi, il romanziere scriverà e scriverà trovando, dice, il seno che gli viene offerto. È un’immagine sessuale evidente. Ma una volta penetrato, una volta entrato in questo seno, il romanziere non dovrà più contenersi, non dovrà più limitarsi nel suo accesso. Dice, infatti, Sade: “Usa come ti pare e piace il diritto di attaccare ogni aneddoto della storia, quando la rottura di questo freno diventa necessaria al piacere che ci prepari”. Di conseguenza, la natura offre verità, e una storia. Offre elementi in forma di madre che dona piacere ai suoi bambini, ma questi elementi il romanziere li deve sistematicamente variare, deformarli, deve sentirsene maestro assoluto. Infine, afferma il testo delle Idee sul romanzo, arriverai a un abbozzo, buttalo su carta e lavoralo intensamente, ardentemente, ma senza rinchiuderti in gabbie e schemi, supera i piani, variali, aumentali: “A te non chiedo che una cosa: sostenere il piacere fino alla fine”.
Credo si debba studiare a fondo, in maniera più decisa e precisa, questo testo. Chiediamoci allora come funziona, in esso, la scrittura. Direi che in primo luogo la scrittura vi gioca un ruolo intermediario tra immaginario e reale. Sade, o il personaggio in questione, si dà fin dall’inizio alla totalità del mondo immaginario possibile e deve quindi variare questo mondo, superarne i limiti, spostarne le frontiere. Va oltre, proprio mentre credeva di aver già immaginato tutto, ed è questo che va trascritto più volte e solo quando sarà arrivato a una data realtà, allora potrà accedere al famoso: “Commentez ensuite”. Come se fosse facile, commentare quando si è sognato di massacrare migliaia di bambini, di bruciare centinaia di ospedali, di far esplodere un vulcano… La scrittura è dunque questo processo, questo momento che ci porta fino a un reale che, a dirla tutta, spinge il reale fino ai limiti stessi dell’inesistenza. La scrittura è ciò che permette di spingersi sempre oltre le frontiere dell’immaginazione. Il principio di realtà o, piuttosto, la scrittura è ciò che a forza di spinte successive sposta il momento della conoscenza oltre l’immaginazione. La scrittura è ciò che forza a far lavorare l’immaginazione, introducendo un ritardo nel momento in cui il reale finemente si sostituirà al principio di realtà. Grazie alla scrittura, l’immaginario non dovrà più superare ciò che fino a quel momento gli era indispensabile. La scrittura spinge la realtà fino a divenire irreale quanto l’immaginazione. La scrittura – ecco la sua prima funzione – abolisce le frontiere tra realtà e immaginazione. La scrittura esclude la realtà, ecco quindi che cancella tutti i limiti dell’immaginario.
Ci sono però altre funzioni che orientano la scrittura. La scrittura, in particolare, cancella il limite temporale, cancella i limiti dello sfinimento, della fatica, della vecchiaia, della morte. A partire dalla scrittura, tutto può continuamente, indefinitamente ricominciare. Ma mai la fatica, mai lo sfinimento, mai la morte si affacceranno in questo mondo della scrittura, che è precisamente l’elemento che cancella la differenza tra principio di realtà e principio di piacere. La scrittura introduce il desiderio nel mondo della verità, togliendo a esso le briglie e i limiti del lecito e dell’illecito, del permesso e del proibito, del morale e dell’immorale. La scrittura introduce il desiderio nello spazio dove tutto il possibile è indefinitamente possibile e illimitato. La scrittura permette all’immaginazione e al desiderio di non incontrare più altra cosa che non sia la sua individualità. Permette al desiderio di essere sempre, in qualche modo, all’altezza della propria irregolarità. In conseguenza di tutte queste illimitazioni prodotte dalla scrittura, il desiderio diventa legge a sé stesso. Diviene sovrano assoluto che detiene la propria verità, la propria ripetizione, il proprio infinito, la propria istanza di verifica. Niente potrà più dire al desiderio “sei falso”, niente può rinfacciargli “non sei totalità”, niente “è vero ciò che sogni, ma c’è qualcosa che ti si oppone”. Niente può più dire al desiderio “ci sei, ma la realtà dice un’altra cosa”. Grazie alla scrittura, il desiderio è entrato nel mondo della verità totale, assoluta, illimitata senza possibile contestazione esterna.
Ecco dunque che, osservata da questa prospettiva, la scrittura sadiana non ha come caratteristica il mettere in comunicazione, l’imporre, il suggerire a qualcuno le idee o i sentimenti di un altro. Non si tratta assolutamente di persuadere qualcuno di una verità esterna. La scrittura sadiana è una scrittura che non si indirizza a nessuno. Non si indirizza a nessuno nella misura in cui non si tratta di persuadere a nessuna verità che avrebbe ipoteticamente nella testa, avrebbe riconosciuto e dovrebbe quindi imporre al lettore. La scrittura di Sade è una scrittura assolutamente totalitaria, tanto che nessuno può esserne persuaso in un senso, e nessuno può comprenderla nell’altro. Ecco dunque che per Sade è assolutamente necessario che tutti i suoi fantasmi passino per la scrittura e attraverso la scrittura, in ciò che ha di materiale, poiché, come ci dice il testo di Juliette, è proprio questa scrittura, quella materiale, fatta di segni posti su una pagina che possiamo leggere, correggere, riprendere e via all’infinito – è questa scrittura che mette il desiderio in uno spazio illimitato, dove ciò che è esteriore, il tempo, i limiti dell’immaginazione, le concessioni e i divieti, sono totalmente e definitivamente aboliti.
La scrittura è dunque il desiderio che ha avuto accesso a una verità che nulla può più contenere. Una verità senza limite. La scrittura è il desiderio divenuto verità. Verità che ha preso forma di desiderio. Del desiderio ripetitivo, del desiderio illimitato, del desiderio senza letto, del desiderio senza esteriorità, dove l’esteriorità è la soppressione dell’esteriorità in rapporto al desiderio. Questo è quanto la scrittura porta a compimento, nell’opera di Sade. Ed è la ragione che lo spinge a scrivere.

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