Live of the poets (inedito in Italia) è un libro particolare nella produzione di Doctorow. Arriva nel 1984, dopo sei romanzi, nella piena maturità dello scrittore – e viene annunciato come una raccolta di sei racconti e una novella. La novella è Le vite dei poeti, che dà il titolo alla raccolta e da cui è tratto il brano che segue. Si tratta di contenitori narrativi (il racconto e la novella) che l’autore newyorchese non ha mai, fino a quel momento, utilizzato. Lo fa per parlare di un tema particolare e sentito: la scrittura e il rapporto che questa ha con la vita – soprattutto come possa risultare illuminante e nello stesso tempo devastante per l’esistenza di uno scrittore. Il tema, volendo esprimerlo in altri termini, è quello della vocazione, che viene sviscerato, soprattutto nella suddetta novella, attraverso una serie di ritratti di un gruppo di amici scrittori (anche nella realtà Doctorow, che è stato editor, ne ha tanti di amici colleghi; da Andre Dubus, conoscente di famiglia, a Amy Rand, da lui pubblicata, fino a Ernest Gaines) e le loro vite, le loro relazioni, i matrimoni. “Non voglio parlare di coppie divorziate, ma di coppie non interamente coese,” ha detto D. a proposito di Lives of the poets. E così, ecco una galleria di personaggi che, come il James Arlington del brano che segue, galleggiano in una sorta di limbo sociale. Una novella che è in parte memoir (anche Doctorow ha frequentato il Kenyon College in Ohio), in parte ritratto d’artista a metà del percorso.
Per la pubblicazione di questo frammento è stato determinante l’aiuto datomi da Amanda Urban, la storica agente di autori come Bret Easton Ellis (compare anche come personaggio nel suo Lunar Park) e Cormac McCarthy.
Nicola Manuppelli
PERCHE’ I POETI NON SONO TUTTI UGUALI
È possibile che qualcosa di veramente grave mi sia successo. È possibile che io mi sia allontanato dalla mia vocazione. Ma come può essere avvenuto? L’ho seguita fedelmente, passo dopo passo, ne ho accettato la logica, non ho mai vacillato, sono stato fermo, e tutto questo mi ha condotto a questo deserto, questo orizzonte piatto. Continuo a girarmi e girarmi intorno e mi ritrovo solo. C’è forse una catastrofe insita nella missione? Si attraversa un limite invisibile, nella logica e nella fede, e a un certo punto un universo senza nome ti soffia negli occhi. È possibile che io lo abbia attraversato.
Una volta volevo scrivere un romanzo sul vescovo Pike. Ora capisco perché, ne vedo la connessione: devo aver riconosciuto quell’adorazione da strabuzzare gli occhi, quella fede fatta di nervi che finisce per assorbirti e fa a pugni con il magma. Il buon vescovo, con ancora indosso il colletto, aveva seguito il proprio amore per Dio, là dove questo lo aveva portato, nel campo dell’occultismo. Il figlio era morto di overdose e c’era questo mezzo che poteva metterlo in contatto col figlio morto. Oh, che dolore, che dolore. Il libro delle preghiere che gli cade dalle dita. Se si crede veramente in Dio, come non chiedere l’aiuto del soprannaturale? Se Lui può essere pregato perché non può venire fuori da una tavola Ouija, in una sala buia, attraverso la voce soffocata di un truffatore? Il vescovo non sospettò mai che avrebbe lasciato il vescovado, povero pazzo fottuto, e sarebbe scomparso nel Negev con una bottiglia di Coca-Cola.
Una volta, anni fa, il mio amico Arlington venne a casa nostra nel Connecticut e si fermò a dormire. Lo sentimmo gemere nel sonno. Ma al mattino lo trovai seduto in compagnia dei miei figli al tavolo dove facevamo colazione. Un uomo grosso, dalla costituzione simile a quella di un giocatore di football, seduto lì in una canottiera a costine, una Pall Mall in una mano e un bicchiere colmo di bourbon nell’altra. Arlington aveva una memoria fotografica e l’idea che aveva di conversazione consisteva nel recitare poesie. Era in grado di improvvisare intere antologie di cose che aveva letto e amato. Quindi c’erano i miei figli, piuttosto piccoli, all’epoca, seduti davanti ai loro Rice Krispes, coi cucchiai in pugno, che lo fissavano, dimenticandosi di mangiare. E c’era Angel nel suo accappatoio, al bancone della cucina, che preparava panini al burro di arachidi per i sacchetti del pranzo e scuoteva la testa incredula. E c’ero io che stringevo la mia tazza di caffè e cercavo di mettere a fuoco la scena che stavo vedendo. E James Arlington, traendo spunto da Green Groweth the Holly, aspirava dalla sigaretta, si aggrappava al bicchiere di bourbon, e iniziava a recitare una poesia di Trackl sulla decadenza della Germania fascista. E non erano ancora le otto del mattino!
Ah che poeta! Voglio raccontare un episodio solo per mostrare che memoria avesse. Eravamo compagni di classe a Kenyon. C’erano molti poeti nel campus e la poesia era la nostra attività principale a Kenyon, così come nello stato dell’Ohio lo è il football. E tre o quattro di quei poeti collegiali erano buoni e promettenti, come Arlington, ma c’erano anche poeti pessimi, e poetastri, e affettati esteti, e a noi piaceva prenderli in giro, deridere la loro rarefatta sensibilità.
Un giorno d’autunno, passeggiando con Jim, saltai dentro a un mucchio di foglie e le feci volare in aria calciandole, e mentre queste cadevano intorno alla mia testa, svolazzando e piroettando, alzai il polso molle e sollevai il mento e gridai, in tremante apprezzamento: Le foglie cadono, le foglie cadono!. Arlington adorò quella scena, rise con questa risata forte, vistosa, vulnerabile che lo contraddistingueva, lui, un vero poeta che amava ascoltare i dischi dei lieder di Elisabeth Schwarzkopf, ma a cui piaceva anche cantare Sam Sam the Shithouse Man mentre camminava lungo il margine – bracciante del centro Ohio che si ritrovava fra confraternite di ragazzi coi loro pantaloni di flanella grigia e bianca. E per tutte le settimane che seguirono mi avrebbe divertito col suo Le foglie cadono, guarda guarda, le foglie cadono! Entrò a far parte del suo repertorio di ricordi, delle frasi di tutti noi di cui lui teneva memoria – eravamo i disadattati, gli emarginati, i paria di quel campus, e lui ci riuniva intorno a sé e questo ci rendeva orgogliosi, fieri – ricordava per noi le frasi e i gesti con cui cercavamo di ottenere il suo apprezzamento. E poi, passano trent’anni, e lui è un famoso poeta, vive in un’inerme intensità, in una furiosa sottomissione alla poesia, gli atteggiamenti tipici del condannato. Ed è un bevitore prodigioso, un bevitore mostruoso, e, infine, all’età di cinquant’anni, decide di ripulirsi, e questa diventa per lui la lotta, il tormento: rimanere sobrio. E ci sta ancora lavorando su dopo un po’ di tempo, tenendosi lontano dal bere, assumendo quell’aspetto più magro, quel pallore da derelitti che loro hanno, e in quello stato ecco un mal di gola che si rivela essere un cancro.
E vado a trovarlo un giorno, in ospedale, e ora non può parlare, gli hanno impacchettato la bocca con una sorta di ovatta medica, e ha una benda attorno al collo per tenere aperta una tracheotomia così che possa respirare. Fa dei cenni alla moglie, Molly, perché gli dia il blocco degli appunti e poi ci scrive sopra e me lo porge e la scrittura sono gli stessi scarabocchi di quel bracciante di campagna di trent’anni prima, e sopra che cosa c’è scritto?
Le foglie cadono.
(da Lives of the Poets, per gentile concessione dell’autore, traduzione di Nicola Manuppelli)