Di libri sugli anni Settanta ce ne sono diversi. Giunti ne propone uno speciale, ben scritto, autobiografico. Una storia personale in quella collettiva. Si tratta di “Via Ripetta 155”, memoir della scrittrice Clara Sereni (il primo successo con “Sigma epsilon”, 1974), che tra il 1968 e il 1977 ha vissuto nel cuore della capitale. Aveva una casa in affitto, la Sereni. Una casa dove, quando non c’era da scrivere volantini, comunicati o da incontrare qualcuno al Folkstudio, passavano amici e compagni. Fuori impazzavano le battaglie sociali, cambiava l’Italia.
Clara Sereni, cosa ha significato scrivere “Via Ripetta 155”?
Ho deciso di tornare su quegli anni perché mi sembra che, a tutt’oggi, fra letteratura e cinema siano stati raccontati molto poco, e spesso male. È una mia vecchia fissazione, che però trova ancora ragioni per alimentarsi. E poi, ha significato tornare a ragionarci sopra, e non è stato inutile, per me.
È stato faticoso dire “io”?
Abbastanza, non ne avevo più voglia. Ma poi c’è stato un breve ragionamento, perché mi era già capitato di riflettere sulla stessa cosa: certe cose le puoi solo raccontare con un timbro di verità, di esperienza personale, se fossero inventate non sarebbero nemmeno grandi pensate. Un esempio: il letto trascinato in giro per Roma.
Con questo lavoro ci riporta indietro, dritti alla fine degli anni Sessanta e poi nel cuore dei Settanta. Cosa sono stati quegli anni per lei, per tutti? Cosa resta oggi di quel periodo di pensieri, di sogni e di azioni, a volte brutali?
Resta molto, più di quanto generalmente si creda, è proprio per questo che insisto a scriverne. In quegli anni, il grande cambiamento dei costumi ha fatto sì che l’Italia da paese bigotto e arretrato che era si trasformasse in un paese che cominciava a essere moderno. Non sono stati solo gli anni di piombo: senza i movimenti di allora non avremmo il divorzio, l’aborto e i consultori familiari, la legge Basaglia, il Servizio sanitario nazionale, insomma un livello di civiltà un po’ più avanzato. Se ci fosse venuto in mente allora – ma davvero era troppo presto – magari oggi avremmo una legge decente sulle coppie di fatto….
Virginia Woolf ci diceva che se una donna vuole scrivere deve avere delle entrate e una stanza tutta per sé. Per lei cosa volevano dire indipendenza e partecipazione?
In quella fase, l’imperativo per me era “primum vivere”, nel senso che il problema di arrivare alla fine del mese era più che reale, anche se vissuto con allegra incoscienza. Ma cavarmela da sola, e avere una casa solo mia (non solo una stanza!) mi ha dato un senso enorme di libertà. Quanto alla partecipazione, credo che allora la parola non mi passasse neanche per la testa: mi sentivo, come tante altre e altri, nel grande fiume della Storia, piccola goccia che doveva comunque portare il proprio contributo.
E l’amicizia, l’amore, gli incontri anche intellettuali, che pesano avevano nei suoi giorni?
Non è che avessero un peso, erano i miei giorni, il tessuto che li teneva insieme e dava loro un senso.
Era snob, aveva un male di vivere, dice che era una mina vagante, un cane sciolto. Ha tentato il suicidio. Oggi è una donna diversa da quella ragazza che scriveva, scriveva, scriveva?
Nel bene e nel male, temo di essere rimasta sostanzialmente la stessa: un po’ più colta, un pochino più saggia, un po’ più consapevole, ma alla fin fine senza differenze di fondo. E cane sciolto, perciò tuttora percepita da qualcuno (ma ormai pochi) come mina vagante.
Ha detto che la scrittura ha sempre fatto parte di lei. Prima l’ha usata per comunicare (ufficio stampa e attività politica) poi per raccontare, tra fiction e nonfiction. Cos’è scrivere per lei oggi e cosa era all’epoca?
Faceva parte di me da quando ero alle elementari, ma se qualcuno mi avesse chiesto perché non avrei saputo rispondere. Solo dopo, attraverso un bel po’ di anni, ho capito che la pagina pubblicata mi dà un senso di persistenza oltre la morte, che scrivere è il modo migliore che ho per fare ordine nelle esperienze e nel mondo. E c’entra la cultura ebraica con il peso che dà alla parola, naturalmente. Ma, da un certo punto in poi (direi dopo “Manicomio primavera”) per ogni libro ho avuto bisogno di una sorta di autorizzazione da me stessa, perché non mi sento di chiedere a nessuno di impegnare qualche ora della propria vita soltanto per un testo magari ben scritto ma senza una motivazione di fondo che almeno io ritenessi valida. Adesso, di scrivere non ho più granché voglia. Chissà…
Se la ragazza di via Ripetta vivesse oggi, nel 2015, in questo tempo, come starebbe?
Avrebbe di certo problemi completamente diversi, e temo molto più drammatici, da ogni punto di vista. Comunque, vorrei che non dimenticasse mai di essere una donna, questione che negli anni ha fatto molti meno passi avanti di quanto si pensasse e sperasse.
Ad un giovane che vuole scrivere lei dice…?
“Primum vivere”, nel senso di fare esperienze, di non limitarsi al proprio ombelico. E di cercare uno sguardo, un punto di vista che non sia il più condiviso, il più accettato, il più accattivante. E poi faticare, non limitarsi alla prima cosa che ti scrivi col computer che oltretutto – mettendo ben bene tutto in fila – dà l’idea di qualcosa di definito prima ancora di averci pensato su. E non mi affiderei più di tanto alle scuole di scrittura, certo utili da un punto di vista tecnico, ma il talento non si impara: o ce l’hai, o non ce l’hai.
Marina Bisogno