E’ uscito in questi giorni per i tipi di Nutrimenti La promessa di Giovanni Cocco, seguito ideale – tutt’altro che modellato a copia conforme – dello straordinario La Caduta, romanzo quest’ultimo che è valso all’autore lombardo il terzo posto al Premio Campiello 2013.
Notevolissimo affresco a più voci, La Caduta era stato salutato come potente parabola sulla crisi del mondo occidentale, dalla solida e complessa trama in cui andavano a convergere cronaca e un substrato di narrazione fortemente influenzata e sorretta dall’epos biblico e da un linguaggio magistralmente controllato.
Prima La caduta, ora La promessa: in che rapporto stanno questi due romanzi?
Considero La promessa il prosieguo ideale de La Caduta, il secondo episodio di un’opera più vasta, concepita in quattro parti. Il collante fra gli episodi è rappresentato dai personaggi, che ritornano e si muovono lungo l’intero perimetro del romanzo (per esempio il prete Joseph o l’immigrata Aisha), mentre il modello di riferimento, la cornice e l’ambientazione cambiano di volta in volta. Diverso è il modello di riferimento, diversa la focalizzazione. L’aggancio rimane il “fatto di cronaca”. Ma se per il primo libro si trattava di circostanze diverse e sparse un po’ per tutto il mondo (la rivolta nelle banlieue parigine, gli attentati a Londra del 2005, la distruzione portata dall’uragano Katrina a New Orleans, la crisi economica che ha travolto la Grecia), nel secondo la vicenda è circoscritta alla tragedia del volo 4U9525 della Germanwings schiantatosi sulle Alpi lo scorso marzo. Si passa, dunque, dal “macro” al “micro”; da tanti fatti calati in una dimensione globale a un singolo episodio accaduto in un piccolissimo villaggio di 150 abitanti.
L’ambientazione è fisicamente contenuta in spazi ridotti, eppure si apre a contenuti universali…
La cronaca è un serbatoio inesauribile di occasioni narrative, un ottimo strumento per rimanere costantemente “sul pezzo”. L’ambizione, tuttavia, rimane quella di partire da fatti realmente accaduti per raccontare esperienze universali. Se il primo romanzo, nelle intenzioni, faceva riferimento al romanzo post-moderno di matrice nord-americana, quello che da John Barth arriva fino a De Lillo, per intenderci, La promessa guarda alla gloriosa tradizione del cosiddetto non fiction-novel e, in particolare, a due romanzi: A sangue freddo di Capote e L’Avversario di Carrère. Una strada poco praticata in Italia e che tuttavia ha prodotto risultati pregevoli: penso allo splendido Elisabeth di Paolo Sortino e al recente Il giardino delle mosche di Andrea Tarabbia, probabilmente il più interessante romanzo italiano di questa seconda parte del 2015, insieme a quelli di Luca Doninelli e Claudio Magris.
Un romanzo “diverso” dalla narrativa italiana corrente. In che senso?
Nessun condizionamento di tipo ideologico. Nessuna patente da esibire. Non c’è la “storiella edificante”. La voce narrante si guarda bene dall’esprimere qualunque tipo di giudizio morale. Il romanzo si gioca su una linea sottile e forse labilissima che è la totale mancanza di empatia della voce narrante (che coincide, si badi bene, con quella di un uomo affetto da gravi disturbi psichiatrici). Il suo è un lungo ininterrotto monologo. E’ un romanzo che non strizza l’occhio al lettore e che, in un certo senso, se ne infischia del destinatario finale. Non vi è alcun messaggio, né intento didascalico. Solo un tremendo, enorme vuoto interiore, che fa da contrappunto al paesaggio desolato ben sintetizzato da quel bianco che appare nella copertina. Per anni mi sono chiesto come mai la stragrande maggioranza della narrativa italiana si rifiutasse di affrontare certi argomenti, o perché molti dei romanzi contemporanei mi risultassero estranei, privi di nerbo. Poi ho smesso di chiedermelo, e ho deciso di tirare dritto per la mia strada. Di recente ho scoperto con una certa sorpresa che esistono corsi di “narrativa civile”. Beh, se così è, allora io rivendico con orgoglio il diritto di appartenere e di praticare una narrativa di tipo “incivile”, non addomesticabile.
Torniamo al romanzo: La resa dell’ambientazione, della crudezza del paesaggio, è particolarmente viva. Come ti sei documentato?
Mi sono recato sui luoghi del disastro a distanza di pochi mesi, prima a maggio e poi ad agosto (lo schianto avvenne in marzo ndr). Il libro ha poi preso la sua forma definitiva in una manciata di settimane.
Ambientazione fisica più circoscritta, limitata, per questo secondo volume della quadrilogia. E limitato è anche il numero di voci narranti: come mai la scelta di affidare a un solo personaggio la narrazione?
Non volevo replicare lo schema della Caduta e avevo la necessità di raccontare una storia in prima persona. Davanti a me avevo due opzioni: quella di far coincidere la voce narrante con quella dell’autore, e che tuttavia ho giudicato presuntuosa. In effetti, la mia vita non aveva e non ha nulla di così interessante. Ho quindi deciso di virare nella direzione di una voce narrante che appartenesse a un personaggio di finzione e che risultasse, in ultima istanza, credibile. Verosimile. Se il tentativo è riuscito, il lettore dovrebbe “sentire” vicina la voce di Vincent. E’ lui che parla in prima persona, solo lui, e racconta il proprio sgomento di fronte all’indicibile. La promessa è certamente un romanzo più maturo rispetto alla Caduta, più sofferto. Più tradizionale nello schema, ma profondamente letterario.
Qualcuno ha scritto recentemente che questo è il mio romanzo “acustico”. E’ una definizione che mi piace. Se La Caduta era The River, un romanzo con le chitarre elettriche sguainate (per usare una terminologia springsteeniana), certamente La promessa è il mio Nebraska, un romanzo più intimista, scritto senza orpelli, che va dritto al sodo. Questo personaggio è Vincent De Boer, un ex giornalista, che si reca sui luoghi del disastro come attratto dalla figura, parallela a volte fino a confondersi a tratti, del pilota colpevole dello schianto, Andreas Lubitz. Cos’hanno in comune De Boer e quest’ultimo, chi analizza l’evento nella speranza di capire e chi, invece, è l’oggetto di questo studio, l’agente, colui che l’ha provocato? Sono due uomini colti in un momento di grande crisi personale: entrambi alle soglie della maturità, Vincent e Lubitz hanno parecchi tratti in comune. Entrambi aspettano un figlio, entrambi soffrono di gravi disturbi psichiatrici, tutti e due si trovano nelle condizioni di dover rinunciare a quello per cui si sono battuti: il sogno di diventare un giornalista per Vincent, quello di diventare pilota per Lubitz. Ne La Caduta il racconto si incentrava sul tempo dell’infanzia e sulla preadolescenza, qui sull’età adulta. Sui sogni che non si avverano e sul dolore che la rinuncia comporta. Le loro esperienze personali sono così simili che le loro vite sfumano l’una nell’altra: la depressione per Vincent e il burnout per Lubitz. I tradimenti di Vincent e quelli di Lubitz.Sogni e rinunce. L’analisi di ciò a cui assiste Vincent sposta il centro di interesse all’interno di se stesso.Ma non anticipiamo troppo. Il dolore universale, quindi, parte di un comune sentire, un “collante”.
A proposito di substrati comuni, (al mondo Occidentale, perlomeno): si nota l’assenza in questo libro dei riferimenti alla Bibbia che invece c’erano nel romanzo precedente. Però ci sono Sant’Agostino e Thomas Bernhard: il romanzo è diviso in due parti, Le Confessioni ed Estinzione.
Il protagonista è un uomo che decide di raccontarsi, e di farlo senza infingimenti: ecco le Confessioni. Il riferimento a Bernhard è duplice: da una parte il concetto di estinzione (legato al capolavoro dello scrittore austriaco, quello scritto poco prima di morire) e dall’altra il problema del talento (sintetizzato magistralmente ne Il soccombente). Sia Vincent che Lubitz hanno dei conti in sospeso da regolare col proprio passato ed entrambi cercano di farlo recandosi nei luoghi della propria adolescenza. Un po’ quello che accadde in Bernhard con Wolfssegg. Entrambi si trovano a dover scendere a compromessi con le proprie ambizioni, quello che accade ai due amici che al corso di Horowitz s’imbattono in Glenn Gould. Ci sono poi due motivi ricorrenti, due fili rossi invisibili che percorrono l’intero romanzo: una linea musicale che alterna alto e basso, passando da The River agli Aphrodite’s Child per arrivare, attraverso Oliver Sacks, alle Variazioni Goldberg e all’Histoire du Soldat. E una linea letteraria, che parte dalla frase posta in esergo al libro, tratta dalle Lezioni Americane di Calvino (quella sull’esattezza), per approdare a Bernhard o Zweig. Quanto alla definizione di romanzo-reportage e di stile cronachistico che gli è stata attribuita da alcuni critici, non sono d’accordo. C’è un’asciuttezza di linguaggio, nel romanzo, e un’assoluta volontà di arrivare all’essenziale che è lontana anni luce dall’idea di “stile” che pervade molti autori contemporanei, che spesso confondono l’espressività con lo stile. Il risultato ottenuto, in altre parole, è il frutto di un intenso lavoro, e la scelta di “non utilizzare il pianoforte per non correre il rischio di cadere in una scrittura di tipo virtuosistico”, è consapevole.
Dovendo “incasellarlo” in una definizione definitiva, allora, in che filone lo faresti ricadere?
Provocatoriamente lo definirei un romanzo d’amore. Anzi, il romanzo di due amori finiti.
Uno solo, questo, dei generi che frequenti con successo. Qual’è quello che senti più tuo?
Penso di essere diventato, col tempo, un ottimo scrittore di gialli (tradotti in 37 paesi, ndr) anche se da più parti si ritiene che quelli firmati come Cocco & Magella siano romanzi scritti “con la mano sinistra”. E la cosa mi addolora, perché in questo atteggiamento vedo una specie di chiusura, una sorta di pregiudizio. In Omicidio alla stazione centrale, il romanzo uscito per Guanda lo scorso maggio, ci sono pagine, a mio avviso, bellissime. In fondo, però, sono in buona compagnia: Julian Barnes e John Banville hanno faticato tantissimo per essere considerati anche autori di genere.
Per concludere: quali sono i tuoi progetti per l’immediato futuro?
Una lunga pausa, di almeno un anno. Cinque romanzi in due anni e mezzo sono effettivamente un po’ troppi. Del resto, esistevano dei contratti (stipulati con troppa fretta) e i contratti vanno rispettati. Adesso mi sento libero. Libero di seguire la mia strada. E di trovare un editore disposto a pubblicare tutto quello che scrivo, senza veti. Io e Amneris, l’autrice che firma con me i romanzi che escono a nome Cocco&Magella, stiamo ultimando un thriller di respiro internazionale che ci consentirà di far riposare, per qualche tempo, Stefania Valenti (le cui avventure, a breve, saranno pubblicate in inglese da Penguin e quindi disponibili in tutto il mondo). Quanto alla mia carriera singola, sto lavorando a un nuovo romanzo, anche se è prematuro anticiparne i contenuti. Di una cosa sono sicuro: farò pochissime presentazioni. Non vi è alcuna relazione tra la performatività e la qualità letteraria di ciò che uno scrive. Quando ho iniziato a pubblicare pensavo che per fare lo scrittore fosse sufficiente essere bravo. Col tempo mi sono reso conto che in Italia, oltre alla bravura, è richiesta una cosa in più: risultare simpatici. Partecipare al teatrino dei festival e dei premi. Assistere al quotidiano scambio di favori, sui social, tra chi scrive romanzi e chi scrive pseudorecensioni. Una cosa impensabile in qualunque altro Paese del mondo (pensate a un Houellebecq o a un Roth posti di fronte alle domande di alcune riviste di casa nostra). Continuo a pensare che i libri siano importanti e che il mestiere di scrittore sia una cosa seria. E mi piacerebbe essere giudicato, oggi come tra dieci anni, per i libri che scrivo e non per le mie opinioni in materia di giardinaggio o cucina.
Anna Vallerugo