Ci si può solo sforzare di sopravvivere, non cedendo alle formule e al balbettio delle mode, restando se stessi, anche se con l’apparenza di anacronismi. Ma niente illusioni. Qualche tuo volumetto resterà in cima a un perduto scaffale della Biblioteca del Cosmo. E forse un unto, barbuto, infelice glossatore andrà un giorno a scovarne il titolo nel giallo dello schedario .
(Angelo Maria Ripellino, 1975)
Hai pubblicato la tua tesi di laurea, vincendo un premio bandito dall’Associazione Peppino Sarina, sul teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti, nel 2003. Circa dieci anni dopo ti sei ritrovato con un componimento nell’antologia 50 anni di Bianca 1964-2014, pubblicato da Einaudi, col tuo nome e cognome alla quarta riga degli autori elencati: proprio sotto il nome di Guido Ceronetti. Che effetto ti ha fatto e come hai raggiunto il traguardo di pubblicare un tuo testo nell’antologia Einaudi?
Un giorno mi piacerebbe dire a Guido Ceronetti che mi ha portato fortuna. Raccontare a uno degli intellettuali più apocalittici, come viene spesso definito, la mia gioia di vedere stampato sull’antolgia einaudiana il mio nome vicino al suo. Magari può mettersi perfino a ridere. Sono arrivato alla Bianca grazie a due persone. La prima è il mio caro amico Giuseppe Polimeni, professore di storia della lingua italiana in Statale a Milano. La seconda è Cesare Segre. E’ stato Giuseppe a spronarmi nel far leggere a Segre (prefatore del mio ultimo libro “Basta che io non ci sia”) le poesie della nuova raccolta che a sua volta poi è finita nella mani del comitato di lettura Einaudi.
« Eppure nel frammento di ogni memoria, / nella natura di un sorriso che supera a volte il nostro sguardo / accarezziamo la vertigine con una mano / nello scandalo innaturale che ci trattiene, / eppure, dall’interno della specie, / ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia, / con le prove concepite fuori da ogni possibile / orizzonte di stupore.». Questa è la poesia, intitolata Dall’interno della specie, che è stata selezionata per il volume di Einaudi. Vuoi spiegare qualcosa intorno alla genesi e alla stesura di questo testo?
L’espressione chiave di questa poesia è “scandalo innaturale” più che “dall’interno della specie”. La vita è lo scandalo innaturale “che ci trattiene” che ci lega alla nostra specie. Noi siamo gli eroi preistorici che cerchiamo di affrontarla con i pochi mezzi che ci hanno dato a disposizione.
Nella prefazione alla raccolta Basta che io non ci sia, Manni 2010, Cesare Segre annota che nel procedimento della tua scrittura in versi vi sono “affioramenti di narrazione”, eppure il componimento non raggiunge mai un tono narrativo. Si parla di un “blocco della comunicazione”? In che senso, secondo te, “la poesia è l’impegno a forzare il blocco”?
La poesia forza questo blocco creando immagini. E’ il sasso lanciato nello specchio d’acqua che crea uno e poi due tre cerchi che si allargano via via fino di nuovo a scomparire. Sta al lettore coglierne in fretta il significato prima che il sasso affondi definitivamente. Il tono narrativo serve a temporeggiare e a aiutare il lettore a focalizzare meglio l’immagine.
Hai all’attivo anche un poemetto intitolato Litalìa, stampato in numero di 99 copie per il progetto editoriale La Grand Illusion, che ha una sua forma grafica particolare, è stato impaginato da due grafici belgi e a impreziosire il testo ci sono anche tre serigrafie di Teresa Sdralevich. Si tratta di venti stanze, tante quante sono le regioni italiane, a proposito delle quali si è parlato di un vero e proprio poema civile contemporaneo. Come si differenzia questa scrittura dalle tue raccolte precedenti e in che modo la poesia può ancora esercitare una funzione civile?
Litalìa è nata se così si può dire nella cameretta di mio figlio. Dal bisogno che avevo di raccontare più che leggergli una storia. Inizia infatti con “c’era una volta un re”, ma subito questa espressione è sobbalzata nella realtà nel “c’è una Repubblica stanca della gente” del verso successivo. E’ una litania sul nostro Paese con all’interno la musa della poesia Talìa; è una sorta di fiume inconscio come può essere il Po che si snoda però in tutte le nostre venti regioni toccando quelli che sono i nervi scoperti della società. Può anche essere vista come una lamentazione civile che finisce con un verbo al futuro di quasi speranza.
La tua lingua poetica predilige l’uso del verso lungo, il tono colloquiale e un dettato poetico in cui “una prosasticità diffusa e comunicativa”, ha notato con intelligenza testuale Davide Castiglione, “si amalgama a zone testuali di non immediata decifrazione”. Per quanto concerne la metrica: quali sono i tuoi autori di riferimento? Con quali autori del Novecento letterario senti di avere un debito di affiliazione?
Ho autori che prediligo che sono Montale, Sereni, Raboni, Giudici, Caproni, Baldini ma non saprei dirti come hanno influito sulla mia metrica. Utilizzo un ritmo più che una metrica che è un ritmo interiore, emotivo.
“Recupera… recupera… recupera… recupera… / (telecronaca della finale dei 200 metri: Pietro Mennea vince a Mosca) // … ma noi così aspettavamo la gioia, / l’ora immortale che pensavamo finita, / da qui diremo: è cominciata, / da un campo azzurro, / da un immenso dentro. / ……………………….. / Recupera… recupera… recupera… recupera / Giacomo tutta la nostra vita.”. Questa poesia chiude al tua raccolta Basta che non ci sia e in qualche modo chiude e getta in avanti tutta la “narrazione” che si è dipanata attraverso i vari testi. Qui ricorri alla telecronaca di un fatto sportivo ben noto e la riagganci a una dimensione privata. In che modo interagiscono memoria personale e collettiva? Come pensi si stia evolvendo la tua scrittura di versi?
Lo sport per me è stato sin da quando ero ragazzo molto importante. Ho giocato nelle giovanili del Pavia dagli esordienti fino alla Primavera. Mi allenavo quattro giorni a settimana e la domenica avevo la partita. Nelle trasferte spesso partivamo il sabato pomeriggio. Lo sport è stato per molto tempo parte integrante della mia vita. Sono fatto di sport e quando è nato mio figlio ho cercato con un esempio di agganciarlo subito a me attraverso il gesto bellissimo di un atleta che corre e recupera spazio e tempo in pochissimi metri messi a disposizione da una gara.