Non sono qui per me, ma per un mio caro amico, il mio migliore amico, si chiamava Il’jà Il’íč Oblomov, trentadue-trentatre anni, di media statura, di aspetto piacevole, con occhi grigio-scuri, ma nei tratti del volto privo di qualsiasi idea determinata, di qualsiasi concentrazione, egli era sempre sdraiato sul suo divano, il colore del suo volto né rosso, né scuro, né pronunziatamente pallido, ma indefinito… possedeva una calma celestiale e la rara agitazione che lo coglieva si risolveva in un sospiro e si spegneva in apatia e assopimento… andava per casa sempre senza cravatta e senza panciotto, perché amava sentirsi comodo e libero… molle, sempre con quelle pantofole lunghe, morbide e larghe… la preoccupazione che lo colse, la mattina che aveva ricevuto dalla campagna la lettera dal suo stàrosta!… sì… perché la sua casa di campagna era stata ricca un tempo e famosa nel paese, ma poi, Dio sa perché, era diventata povera… però ancora poteva permettersi di farsi servire da quell’uomo anziano, Zachàr, che amava il suo abito grigio e nei capricci di lui, contro i quali egli brontolava, egli vedeva i pallidi riflessi della passata grandezza… ah! quel furbastro e incapace di Zachàr… Oblomov avrebbe voluto che ci fosse pulizia, ma avrebbe desiderato che ciò fosse avvenuto così, da sé, inavvertitamente; sdraiato tranquillo, non sopportava alcun cambiamento, figuriamoci cambiare appartamento, temeva di scuotere la vita come di stringere le ali a una farfalla… la chiami nevrosi, narcisismo… eppure aveva tanti amici, non era cattivo, anzi! Apatico, sì. Non finiva di leggere quello che iniziava, come dici tu: dilazione nevrotica, la lettura seria lo affaticava… non scriveva i documenti per salvarsi la situazione in campagna e in questo lo aiutai io, ci mancherebbe… delle sue capacità, del vulcanico lavoro interiore della sua testa ardente, del suo cuore umano solo io posso testimoniare; egli vedeva solo giorni sereni, volti sereni, senza preoccupazioni e senza rughe… l’infanzia… quando mi raccontò quel suo sogno d’infanzia, dove il suo essere era un pulcino nell’ovatta della famiglia, oh sì, non accettava la… come la chiami tu? castrazione: la perdita di godimento necessaria affinché un individuo possa diventare libero e progettare la sua vita; il suo oggetto d’amore erano rimasti i suoi genitori, per quanto defunti, lui era unico e irripetibile, come lo è ogni figlio agli occhi della propria madre, e negli altri lui voleva trovare ancora i suoi genitori, e con orrore una volta rispose a Zachàr: io adesso saprò che per te sono come qualunque «altro» eppure, come hai detto tu, bisognava gettarlo nel mondo, nell’orizzonte dell’altro estraneo per dargli una scossa, per svegliarlo a sé stesso… anche se per lui, nevrotico e malinconico com’era, la colpa dei suoi tormenti stava sempre nell’altro, in Zachàr, per esempio, ma sì… proprio… la sua mamma, il suo babbo, ecco di chi era la colpa… e lui era rimasto prigioniero di quel paese meraviglioso, e me lo dicesti anche tu, quando ti raccontai il suo sogno… per lui era tutto regolare, non aveva bisogno di nulla, davvero… temeva il freddo e inorridiva davanti alle scosse delle passioni: non vi avvicinate, non vi avvicinate: voi venite di fuori e portate il freddo, ci ripeteva spesso quando andavamo a trovarlo. Desiderava che il tempo stesso non mutasse mai, eppure io lo invitai al viaggio, a muoversi, a scuotersi il soporifero e rassicurante passato-grembo da dentro e di dosso. Gli feci conoscere la dolce Ol’ga, la mia attuale moglie… un po’ nevrotica anche per lei, per la verità, un’isterica… si innamorarono, ovvio! A lui non mancava nulla, tranne la realtà della vita, la gioia, il dolore… e diceva che la passione deve essere limitata, soffocata, affogata nel matrimonio e al matrimonio ci arrivò, persino il suo unico figlio chiamò come me: Andréj e, come dici tu, anche così non accettò cambiamenti, voleva che suo figlio diventasse come me, simile a qualcuno fidato, come se imponendogli il nome di una persona a lui familiare, egli potesse essere assolto dal fare il padre, l’educatore e il suggeritore di parte del destino filiale come lo fu mio padre per me. Ol’ga… Ol’ga lo amò e lui ricambiò febbrile e contraddittorio. D’un amore puro e odoroso di lillà, vivo come una nidiata di colori a primavera, folle e incompreso, e poi finì, svenne, smise di cantare e Oblomov andò via: che cosa cercare, in che direzione volgere i pensieri, i propositi? Il fiore della vita è appassito, sono rimaste solo le spine.
Riconosco però il mio errore: le tempeste non facevano per Oblomov, non avevo capito il suo tempo soggettivo, credevo che senza l’aiuto altrui, il pensiero e l’intenzione in lui non maturavano e, come una mela matura, non sarebbero mai caduti da sé… bastava ascoltare il suo desiderio e non imporre il mio. Dopo la breve felicità con Ol’ga, nella vita di Oblomov le rose, i fiori d’arancio, la festa brillante, il bisbiglio di ammirazione nella folla, tutto a un tratto si spense… tutto appassito, tutto passato. Lui non era come me: la vita non voleva immaginarsela come un largo, rumoroso fiume irrompente e dalle onde ribollenti… per lui questa era una malattia, un febbrone, come saltar dalle cateratte di un fiume, dove le dighe sono state strappate via e minaccia l’inondazione. Così disse a Ol’ga e aggiunse anche: tutto il mio organismo è come intorpidito ed ha bisogno di calma, sia pure temporanea… tutto sembrava perduto, Oblomov malato: guardava come cadeva la neve… come i pali della stecconata formavano delle piramidi, come tutto moriva ed era ricoperto di un sudario. Mi ero ingannato: il cambiamento avvenne, e lento lento, il dolore lo aveva scosso, ma non per come lo intesi io; andò a vivere nella casa della vedova Agaf’jaMatvéevna e lì iniziò a capire come la mente si ottunde straordinariamente e straordinariamente si acuisce, come la volontà di arrende alla volontà altrui, e la testa si piega, e i ginocchi tremano, e fanno la loro comparsa le lacrime, la febbre… l’amore. Mangiava bene, camminava poco e pigramente, e non fu un bene: due colpi apoplettici, ma il cuore di Oblomov, ho scoperto, era profondo come un pozzo. Talmente buono, che il fratello di Agaf’ia e Tarant’ev cercarono, riuscendoci per un bel po’, di fregarlo… grazie a Dio me ne accorsi e lo salvai… dagli altri e da sé stesso. Eppure provai un senso di colpa per averlo costretto a seguire il mio desiderio e non il suo, se non avesse cambiato nulla della sua vita, forse ora… però a qualcosa valse il mio intento: era diventato padre e nella nuova casa la vita era quella che lui desiderava: persone semplici, buone e affettuose lo circondavano, tutte d’accordo nell’essere, con la propria esistenza, di appoggio alla sua vita, e nell’aiutarlo a non accorgersi della vita stessa e a non sentirla… il suo ideale di vita si era realizzato, anche se senza poesia, senza i raggi di luce dei quali la sua fantasia talvolta aveva circondato il corso largo… della sua vita nella campagna natale, fra i servi e i contadini… quella sua attuale esistenza la considerava come una continuazione dell’esistenza condotta nella sua infanzia ad Oblòmovka, solo con un colorito diverso di luogo e in parte di tempo. Aveva trovato il suo paradiso, nel suo angoletto dimenticato, lontano da ogni moto, da ogni lotta, da ogni vita. Hai ragione a dire che ognuno è il suo proprio desiderio: Oblomov pensava esattamente questo: ad altro è toccato in sorte di mostrare i lati tempestosi della vita e di mettere in moto le forze creatrici e distruttive: ad ognuno la sua missione… Egli non era nato né era stato educato come un gladiatore per l’arena, ma come un pacifico spettatore della lotta… E gli pare in sogno di avere raggiunta quella terra promessa dove scorrono fiumi di miele e di latte, dove si mangia senza lavorare e tutti son vestiti d’oro e d’argento. L’ultima volta che andai a trovarlo, Oblomov parve cessar di esistere, e sentii solo quel dolore che si sente quando, agitati, dopo una lunga separazione, si corre a cercare un amico e si viene a sapere che egli non è più da tanto tempo, che è morto. Per questo seguo il tuo consiglio, non c’è altro da fare… Agaf’ja Matvéevna, che diventò sua moglie, mi disse che una mattina gli portò, come al solito, il caffè e lo trovò suo letto di morte mite e sereno come nel sonno… molti ho amato, ma nessuno così fedelmente e ardentemente come Oblomov, disse facendomi rabbrividire di nostalgia. Dopo averlo conosciuto non si può cessare di amarlo. Non è così? Il mio migliore amico… ho voluto cambiarlo, ma lui rimase lo stesso, perché anche se si è rovinato e senza ragione alcuna… non era più stupido di tanti altri, un’anima pura e limpida come un cristallo; nobile, tenero, ma ai miei occhi si è rovinato! Farò come mi hai detto: racconterò tutto, lasciami raccogliere i pensieri… ne scriverò un romanzo: potrà essere utile a qualcuno… perché forse hai ragione tu: si nasce per vivere, pigramente o attivamente non importa… importa il nostro desiderio, che ci nutre, ci sostiene, ma di cui nessuno, tranne il nostro cuore, forse, ci capirà mai qualcosa.