L’amore di un bimbo, per un bimbo, per un fratello. L’amore limpido di quell’esistenza sospesa ancora tra crescita e sogno e scoperta, e irrimediabilmente lanciata verso la perdita dell’innocenza. Crescere è anche e soprattutto perdersi, sporcarsi… dimenticare. Cambiare, in peggio.
Nel 1956, all’età di trentaquattro anni, Jack Kerouac trascorse alcuni giorni seduto a imbrattare con la matita uno dei suoi taccuini, dopo aver osservato una vecchia foto di suo fratello Gerard trovata qualche mese prima.
Questo taccuino diventerà un libro pubblicato soltanto nel 1963 (in Italia, Mondadori lo pubblicherà nel 1980), sette anni dopo quel flusso di coscienza di un Kerouac già maturo e consapevole.
In Visioni di Gerard, Jack fa un salto indietro di trent’anni, diventando di nuovo Ti Jean (il piccolo Jean), quando ancora non parlava neanche l’inglese. E narra della sua casa, della sua famiglia, del rapporto con la Chiesa (dell’ingombrante presenza della stessa all’interno della vita di un’intera comunità) e del non essere un WASP nel New England dell’epoca, ma soprattutto, racconta di Gerard, suo fratello maggiore, spirito puro, cuore malato, angelo che come tale nasce, cresce e raggiunge il cielo, perché muore bambino, perché non ha il tempo d’inquinarsi diventando adulto.
Di là da ciò, questo libro è una delle tappe imprescindibili per tentare di apprezzare la “Leggenda di Duluoz”, di capire l’animo di Kerouac e la sua costante, profonda e drammatica ricerca del significato dell’esistenza. E molti di “noi”, non potranno che ritrovarsi in varie sfaccettature familiari, tra il crescere in una famiglia cattolica, il senso e varie strutture della famiglia stessa e, per l’appunto, il rapporto del nucleo familiare con la Chiesa Cattolica che in un modo o l’altro ha lasciato il proprio segno indelebile quantomeno nella nostra memoria.
Questa edizione del 1980 è uno dei regali da me per me dello scorso Natale ed è anche il mio auspicio di non smarrire mai quel bimbo – quel fanciullino (aveva ragione Pascoli) – che alberga in me, e che sento ancora ridere della vita, con le mani sporche di ghiacciolo squagliato e di estate polverosa tra il cemento e le preghiere e l’assenza di nuvole, lì, all’interno dell’oratorio, nel pomeriggio infinito, con preti e palloni sdruciti. E le grandi nuvole nere ancora lontane; troppo lontane per essere scorte. Sarebbero arrivate soltanto quando avremmo capito che le preghiere – “quelle” preghiere – non sarebbero servite a nulla. E soprattutto, dopo tutto quel – per usare le parole di Jack – “comprendere quell’assoluto e immortale idealismo… e ancor più tardi la scoperta (ovvero la stupita sbigottita boccheggiante folgorata ridestata riscoperta) del Buddismo, Ridestamento–– Stupida reminiscenza che fin dall’inizio io, chiunque o qualunque cosa “Io” fossi, ero destinato, proprio destinato, a conoscere, imparare, capire Gerard e Savas e il Benedetto Signore Buddha (nonché il mio Dolce Cristo attraverso tutte le sue sovrastrutture paoliane e croci insanguinate di violenza pagana)–– Svegliarsi alla fede pura nell’unica luminosa verità: Tutto è Bene, pratica la Bontà, il Cielo è Prossimo”.
Ci sono “catechismi” che lasciano il segno o che attendono latenti nella scatola di cartone delle vecchie fotografie… delle vecchie cartoline. Qualcuno le ha spedite. Qualcuno le ha ricevute. È il mondo perduto che torna e rivive. Sono il sorriso e il pianto del bimbo santo. Sono la morte e la rinascita. Il perpetuo presente, imprigionato, come diceva Böll, nella collezione di attimi.
La prima volta che ascoltai Comfortably Numb avevo quattro anni. Era il 1980. E come Jack non parlavo ancora l’inglese. Quando compresi il testo di Waters ero quasi maggiorenne. Il bambino era cresciuto, il sogno era finito e mi sentivo già, spesso, piacevolmente intorpidito. Proprio in quel periodo mi regalarono una copia di On the road. Fu allora che mi aggrappai definitivamente ai libri, al viaggio… e al “bambino”. Non smisi più di leggere – sebbene leggessi già abbastanza sin da piccolo – e cominciai a scoprire l’Europa e afferrai il “mio” bimbo ogni volta che lo sentivo scivolare via… ogni volta che stavo per perderlo. E Jack diventò un fratello. E capii quanto pianto può celarsi sotto ogni gaio e frastornante e abbagliante inno alla vita.
Ogni inno alla vita, del resto, è piacevolmente intorpidito. Proprio come ogni attimo, imprigionato all’interno di una cartolina. Proprio come il sogno di un bambino. Proprio come le Visioni di Gerard… e di Ti Jean.
Francesco Canino