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John Cheever, Una specie di solitudine

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Come costruire un romanzo dalla potenza straordinaria pur in assenza di una trama che si sviluppi come tale, regolata e contenuta entro confini netti e con finale determinato dal suo fautore?

E ancora, come non incorrere in cadute di tensione e concessioni alla noia, rischio intrinseco nel caso di un’opera in stato di apparente assenza di legami a concatenarne gli episodi?

In pochi riescono a farlo, in pochissimi realizzandone un capolavoro assoluto: è sicuramente così per “Una specie di solitudine – i Diari” di John Cheever, straordinario scritto che va a coprire un arco temporale lungo, dalla fine degli anni Quaranta alla scomparsa dell’autore nel 1982, e che ci pone di fronte a uno scrittore che si mette a nudo fino alla totale scarnificazione.

Non ha pietà, Cheever, né per sé, né per il lettore; eventuale, quest’ultimo, perché è lecito domandarsi se questi frammenti siano davvero “solo” diari, giornali di bordo con destinatario se stesso, oppure se dietro ci sia un raffinato gioco letterario scientemente voluto di “rappresentazione del sé a uso pubblico”.

In fondo, poco importa: quel che rimane, è una lettura sulla vita e i moti che la agitano, le scelte socialmente approvate (una moglie amata che però non può soddisfare appieno il suo bisogno di amore e di una sessualità vitale ma dispotica che lo governa, letteralmente; l’adorato figlio Federico), le scelte nascoste dell’omosessualità – ammessa del tutto e con grande sofferenza solo negli ultimi anni di vita – e dell’alcool, punto d’appoggio, sollievo e conforto ma fonte di profondo malessere e vergogna.

E se l’incipit parrebbe quasi una dichiarazione di sconfitta: “Nella mezza età c’è mistero, c’è mistificazione. Il massimo che riesca a cogliere di questo periodo è una specie di solitudine”, ecco che in ogni pagina successiva questa sensazione di impotenza va a sciogliersi: nota ben altro, Cheever, e registrerà tutto, nella forma del frammento, ma in ossimorica completezza e straordinaria poesia, e bellezza.

Uno stato di grazia che Cheever riesce a cogliere nelle minime manifestazioni del quotidiano, fino nei numerosi riferimenti alle condizioni del tempo (caposaldo tradizionale della diaristica), nei “temporali ai margini del pomeriggio”, nella pioggia “fredda e costante” che ha imparato ad “ascoltare nelle pause di un litigio”, nel “buio che chiude un weekend” fino a quel momento scivolato via arioso e pieno di luce (un topos costante nella sua narrazione, “La verità possiede, credo, il senso della rivelazione e della luce”), nei tramonti con “le nuvole nobili in cielo”.

Attimi di cui restituisce una dimensione di esaltazione: “C’è l’euforia, la sensazione che la vita non sia niente di più di ciò che appare”, confessa in un istante alleggerito da ogni gravame esistenziale, “luce e acqua e alberi e persone piacevoli”.

Ma appena una riga sotto: “C’è sempre, da qualche parte, questo accenno di aberrante carnalità”. Carne e corpo, una sessualità carsica, vissuta male, lacerante, presente sempre, a volte più forte del desiderio fondante di scrivere. “Scrivere bene, scrivere con passione, essere meno inibito, essere più caldo, essere più autocritico, riconoscere il potere così come la forza del desiderio carnale, scrivere amare”, si flagella, in un’autocritica rigorosissima solo occasionalmente superata, in concomitanza con la pubblicazione di un racconto o di un premio ricevuto (anche il Pulitzer e due National Book Awards, n.d.a.) per ripiombare rapido in un’incertezza devastante: “Il mattino mi restituisce tutta la mia sicurezza e i miei limiti.”

Stati d’animo si alternano più e più volte, minando le sue poche sicurezze. E quando “il giorno perde ogni forma, motivo e significato” eccolo arrivare, l’alcool, “per ridargli senso e bellezza”. Da solo, di nascosto, richiudendo rapidamente l’anta dell’armadietto il più delle volte. O apertamente, nella condivisione di un desiderio: “Bere gin davanti al fuoco, abbracciati: queste cose appassionate, potenti e imprevedibili”. Con la moglie o con una delle tante amanti e dei tanti amanti – a volte bellissimi, a più spesso “ordinarietti”, in special modo quelli che conosce in una Roma dove abitò a lungo e che dipinge, singolarmente, di una sensualità immorale – di cui cade preda, che desidera prepotentemente e ama, di un amore disperato: “E’ possibile che tutti i miei sentimenti siano sbagliati, ma al momento mi appartengono”.

Amore che rivolge tutt’intorno, in costante affanno e desiderio di essere ricambiato (“Cos’è questa specie di tenerezza, che sembro averne un bisogno così violento da offuscare il mio buonsenso? Cos’è questo misterioso bisogno?”). Che dichiara alla sempre tradita moglie Mary, che osserva “al mattino, addormentata, uguale alla ragazza di cui mi sono innamorato. Le braccia rotonde stese fuori dalla coperta. I capelli bruni sciolti. La durevole qualità di ciò che è serio e puro”.

Al figlio, a tutti: “Alla stazione, io e Federico salutiamo i treni. I macchinisti ci salutano, certe volte i controllori e i passeggeri alzano la mano. Lungo il fiume alla luce del mattino arriva il treno da Chicago. Dietro i finestrini dei vagoni si vedono file di bicchierini di carta per il caffè. I passeggeri di prima classe siedono soli nei loro scompartimenti, e quanto si può essere soli in quei posti. Il vagone ristorante è chiuso. I camerieri hanno tolto le tovaglie e si sono messi i loro abiti civili. È tutto in uno stato di prontezza, anche se passerà un’ora prima che raggiungano New York. Le signore hanno indossato il cappello, tengono in mano i guanti e la borsa. È in questa sospensione temporale, in questo turno di guardia, in questo punto di prontezza, noi, io è mio figlio, auguriamo loro buona fortuna e un piacevole arrivo. Speriamo che alla stazione ci saranno i loro amici o i loro familiari a prenderli oppure che andranno in qualche posto dove saranno accolti con affetto, fiducia e a volte amore. Speriamo che non finiranno in una stanza d’albergo.”

Scoprirsi, ammettere debolezze e necessità, pervenire a legittimarsi pulsioni e desideri ha preso oltre quarant’anni: ma i Diari, oltre che traccia del percorso umano di John Cheever in pagine piene di una poesia straziante, sono pure straordinaria chiave di lettura dell’evoluzione del suo scrivere.

Se relativamente sporadici – considerata la mole dell’opera, cinquecento pagine – sono gli accenni al mondo delle lettere (giusto qualche riga sugli scambi telefonici con Bellow, Roth, Updike), molte e preziose, invece, sono le note su romanzi e racconti, e su dubbi e incertezze sottese alla stesura di tutti i suoi capolavori.

Qui il cerchio si chiude, si trovano coerenza e corrispondenza tra l’uomo e lo scrittore, si approda felicemente ciò a cui Cheever ammette di tendere: la “ricerca di un equilibrio tra lo scrivere e il vivere”. La morale inflessibile perenne castigo della sua vita privata, si riflette intatta in quel rigore stilistico che gli ha permesso, col lavorio costante sulla parola, di scrivere tutti i suoi capolavori.

Gliene siamo – e saremo – sempre grati.

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