Questa prima raccolta di Gaia Giovagnoli, Teratophobia (’round midnight edizioni, Campobasso, 2018), “paura dei mostri”, è un incedere tra spigoli e materiali contundenti, dove a subirne gli sfregi è un corpo spezzato e rimestato da forze indicibili, causa di reiterate torture. Ecco che già abbiamo tracciato una prima indicazione interpretativa, la figura del martire e il tema del martirio, nel significato etimologico di «testimone», di vittima (ma nulla a che vedere col ‘vittimismo’ che attanaglia molti poeti). Si tratta di prima persona ‘oggettivizzata’, indifferente al dolore; capita che l’io reciti il ruolo di «agnello» all’interno di un sacrificio subito senza opposizioni, ma tutto ciò appare nella sua vanità di farsa poetica, una tetra rappresentazione in cui la sofferenza è tutta architettata: «Io agnello senza scampo/ a te che immoli/ non cedo neanche il pianto/ – ma mento: bagno la faccia/ in ogni tuo taglio» (p. 34).
È un sacrificio (ecco la chiave di volta del testo) sempre accolto in maniera oscura, mostruosa, nel tentativo di decifrarsi; ma come decifrare il male, se esso è nutrimento per un soggetto che anela al disfacimento di sé?
A confermare la predilezione di Giovagnoli per il corpo-testo dissociato, la scelta di una precisa scansione in ‘sezioni’ (si accetti, in questo caso, il termine nella sua valenza polisemica), che vogliamo rispettare, per constatare poi, se possibile, gli esiti di una dissezione, laddove è la stessa autrice a invitare il lettore: «Leggi le viscere: ho un corpo/ da scontare – l’ho portato avanti/ e riconosciuto a stento» (p. 17); il testo non si rivela, ma è offerto (Donaera nella prefazione parla di «eucarestia»), nella ciclicità di un rito inscenato da una sacerdotessa-strega, la cui vocazione al massacro è testimoniata dall’esposizione, in libera piazza, del corpus testuale ogni volta ri-condannato a morte. Nella ripetizione del massacro esso può essere compreso come corpo riflesso, «fuori di sé, sdoppiato», utilizzando la terminologia di Deleuze:
Tale è il possesso visivo: è possibile possedere perfettamente soltanto ciò che è già stato posseduto. Non soltanto posseduto da un altro, poiché l’altro in questo caso è soltanto un intermediario e, al limite, non ha esistenza. Ma posseduto da un morto, posseduto dagli spiriti. Si possiede bene soltanto ciò che è espropriato, posto fuori di sé, sdoppiato, riflettuto sotto lo sguardo, moltiplicato dagli spiriti possessivi.1
La costante di questa raccolta è in ogni caso la paura, che Freud aveva analizzato in ambito letterario definendo l’unheimlich, il ‘perturbante’; il termine è coniato da Freud come contrario di heimlich (casalingo, familiare e nativo), arrivando in un primo tempo a definire il perturbante, attraverso Schelling, come «tutto ciò che doveva rimanere segreto ma è venuto alla luce»2; questa definizione permette a Freud di collegare il tema del ‘perturbante’ a ogni stato emotivo rimosso che si ripresenta3. Leggiamo, dunque, le viscere.
Alessio Paiano
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Io. La carne
L’allestimento scenico del sacrificio avviene in questa prima sezione; esplicite sono, infatti, le allusioni al tema della crocifissione («la debolezza fata osso spino/ a bucarmi la testa», p. 17), tramite un richiamo ossessivo ai «chiodi» nel primo componimento; a rimarcare il rapporto d’identità tra vittima e carnefice è il riferimento a una presenza ‘altra’ che in tutta la raccolta non è mai esplicitata. Il sacrificio è illustrato nelle regole di un gioco infantile, un omicidio di sé parodizzato e appena abbozzato: «ti porto i chiodi:/ il resto sono solchi zitti/ amari come il latte/ di chi ha perso un figlio/ e si bagna la camicia/ – il resto non so dirlo» (p. 16). Nel proprio riflesso si rivela l’immagine distorta e martoriata di un’infanzia riemersa come figura minorata e spettrale; il corpo è una vuota impalcatura retta da sostegni precari («dei rami di carne/ che si bagnano al fiume», p. 18) e la pubertà sancisce la fine della vanità del gioco. Da subito appaiono, infatti, i primi riferimenti a una maternità potenziale vissuta come un oscuro presagio, un nuovo sacrificio al quale si è condannati, ossia essere «madre senza voglia» (p. 19).
Il ‘corpo’, ormai balocco dell’autrice (inteso, di ciò che resta), è condannato a manifestare pubblicamente la propria resa, vagheggiando un impossibile tripudio, se, in questi endecasillabi, la piazza è un palcoscenico deserto: «la piazza deserta è stato l’altare/ dove mi sono sentita redenta» (p. 22). Orrendo è l’avvenire della metamorfosi e il plasmarsi di un soggetto comunque androgino, carattere ricorrente per comprendere uno degli incubi di Teratophobia, ossia il costante presagio di una germinazione interna percepita come metastasi, con forte riferimento all’androgino Tiresia in The Waste Land.
Ogni riproduzione di questo corpo difettoso è un atto vano, immorale e meccanico, che genera aborti: «quella madre di scarti che ero/ ormai piena di gesti imparati» (p. 24). Producendosi nel proprio ‘doppio’, difettoso all’origine, l’atto poetico consente in ogni caso un riconoscimento del sé espropriato (in precedenza, Deleuze) che, dice l’autrice, «nel dirlo lo vedo/ lascio vivere me se lo dico» (p. 25), a cui si identifica in toto l’’altro’ vaneggiato. Il vero ‘mostro’ è sempre un’emanazione inconscia del creatore-poeta («ora il mostro è questa bimba piegata/ un conato scurito nel sogno/ dicembre accigliato da padre», p. 25).
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Loro. La radice
Abbiamo già riflettuto sul concetto di paura e definito i mostri come un ‘altro da sé’ un tempo sommerso e adesso riaffiorato attraverso la memoria. Ma la memoria non può che essere inaffidabile, perché rielaborazione ‘alterata’ di una memoria assimilata da un altro; per dirla con Jacques Derrida, «ogni racconto è dunque il ricettacolo di un altro»4. I mostri possono allora ripresentarsi in forme di ricordo alterato, insomma nella riproposizione di un trauma o di un ‘desiderio’ rivelatosi nel sogno, direbbe Freud, ma che è comunque frammentato e rimodellato dalla coscienza nel suo riproporsi, «provocando, di conseguenza, una deformazione della sua espressione»5.
Al caos riemerso attraverso la percezione di presenze brulicanti dentro e fuori dal corpo, fa eco un’irregolarità linguistica tramite fenomeni d’ipallage: «Sei collo nudo/ in una sciarpa di stanze/ che ti girano attorno», oppure «hai coltelli di dita che scavano» (p. 33); ancora il linguaggio è inframezzato da contaminazioni anglofone che atte a drammatizzare il discorso: «Gli dirò: bentornato fratello/ It’s been a long time/ – che hai contestato il padre» (p. 35); altra intromissione di ‘genere’ è costituita da alcune scene dal sapore splatter, quasi fumettistico: «da fratello affamato/ sgolerò la carne gonfia del vitello/ stringendo te» (p. 36), e in precedenza: «La pelle qui non cicatrizza:/ resta coperta/ di carne slacciata» (p. 17). Altro elemento è la drammatizzazione patetica della percezione degli spazi, e l’incubo non è più guardarsi dentro ma guardare dentro le altre cose; si leggano questi versi, dove al terrore si associa una metrica tipicamente ermetica, eccessivamente patetica e quindi irreale, com’è il delirio del soggetto poetico-psicotico che sa rielaborare la realtà solo tramite iperbole: «Anche un cassetto/ in queste case/ è un baratro aperto» (p. 39)
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Lui. Lo strappo
L’ambiente narrativo, qui rimodellato, funge da contrasto agli elementi claustrofobici analizzati in precedenza (il ‘cassetto’, ecc.), prediligendo spazi aperti e boschivi, dunque spettrali e ostili; si consideri l’impianto fonetico nelle descrizioni, che prevede una predilezione per i suoni aspri: «La parola imparo a tritarla/ sul viale scoperto/ le suole sul gozzo insipido» (p. 41); l’effetto cimiteriale è reso anche da elementi vegetali avvizziti e soggetti umani caratterizzati da movimenti automatici, collocati in un’ambientazione ferrosa e urbana che è descritta tramite distaccata enumerazione.
L’’esterno’ non ha assalito il soggetto mutandone le coordinate d’interpretazione della realtà, ma è il soggetto che ha applicato le sue strutture all’esterno, distorcendolo; da questo istante anche la realtà è divenuta immaginario inattendibile: «Assomiglia al mio nero/ questo montare dell’ombra/: Persefone sta nella colpa di riandare ad un gesto» (p. 42), dove la reiterazione del gesto si struttura come riproposizione in serie di elementi riaffioranti, e ciò richiamerebbe all’ossessione della maternità percepita, in via delirante, come presagio di metastasi e di morte («si abortì/ senza voler rinascere», p. 47). Ci torna utile il saggio di Freud:
Un effetto perturbante si viene a manifestare frequentemente e con facilità, quando viene meno la discriminazione tra immaginazione e realtà e quando ci si presenta nella realtà qualcosa che, fino ad ora, ritenevamo immaginaria. […] Questo fattore contribuisce in larga misura all’effetto perturbante legato alle pratiche magiche.6
È a questo punto che, scardinate le coordinate del reale, il soggetto subisce una serie di metamorfosi; esse, pur chiaramente inscritte nel processo delirante, potrebbero avvenire anche come meccanismo difensivo per assottigliare l’idiosincrasia tra il soggetto e il circostante, come se, alla figurazione di una realtà ‘altra’, debba corrispondere un soggetto ‘nuovo’, non in via contrastiva tra l’io e il resto (quindi ogni riferimento al Gregor Samsa kafkiano sarebbe erroneo); il soggetto assume i connotati di una bambola-bambina, che testimonia il congelamento dell’infanzia, adesso riemersa, prematuramente inumata7: «Diranno tutti che sei morta da poco/ ma che non lo ammetti/ Mi ritrovo padre e fratello/ di te che sei tutto ma non bambina» (p. 47). Non a caso Freud considera gli oggetti antropomorfi tra le cause del perturbante, ma soprattutto collega la predilezione per gli oggetti ‘automatici’ ai desideri infantili:
Jentsch crede che si abbia una condizione particolarmente favorevole all’insorgenza del perturbamento quando vi sia l’incertezza intellettuale se un oggetto sia o no animato, e quando un oggetto viene a rassomigliare troppo da vicino a uno vivente. Ora le bambole sono naturalmente legate assai strettamente alla vita dell’infanzia. Noi rammentiamo che, nei loro primi giochi, i bambini non fanno una netta distinzione tra oggetti viventi e non viventi e provano molto piacere nel trattare le loro bambole quali persone vive […]. I bimbi non temono che le bambole si animino, anzi possono addirittura desiderarlo. Quindi, in questo caso, l’origine del senso di turbamento non si troverebbe in una paura infantile, ma piuttosto in un desiderio infantile, o semplicemente in una credenza infantile.8
La malleabilità anti-lirica del soggetto può risolversi in una presa di coscienza del proprio stato di materiale di compostaggio («Da un po’ sei una forma soltanto:/ un cerchio che gira e si richiude», p. 46), fino alla propria riduzione minerale: «ma sei in quell’acqua imbiancata/ che corre il lavandino/ giri di scatto al nodo del tappo» (p. 53). Il processo della scrittura diviene processo di miniaturizzazione fino allo stadio di «larva» «degenerata» (p. 62); lo stesso «cassetto» in precedenza descritto come baratro terrificante, è adesso habitat («sono ancora in un cassetto a casa tua», p. 63) dove ri-avviene lo sviluppo.
Riscoprire il mondo-mostro vuol dire vagare con un’incoscienza primitiva, da «bestia nuda» (p. 64), per la quale tutte le cose sono ancora ‘subite’, ma con una nuova e sinistra insensibilità del sé-oggetto, degradato a materiale inorganico («ancora cammino da pietra», p. 63). A quali leggi debba obbedire questo nuovo essere che, seppur rinato, si riconosce sottoposto a nuove macchinazioni, va ricercato nelle gabbie dell’educazione e del linguaggio; quest’ultimo genera definizioni del sé costituzionalmente insufficienti («Ero mostro fragile/ mi chiamavano bambina/ mi vestivano da brava/ nel mondo andavo così/ da aggettivo e nome corto» ivi).
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Tu. Il nodo
Saltate le premesse di un dialogo tra mostri, anche il testo diviene parodia di se stesso, col ricorso a una sonorità nuova; ciò avviene tramite forme di testo musicali, ancestrali e primitive, che l’autrice-strega tesse con abilità da cartomante: «vipera bianca/ statua di squame/ fu trovarmi scalzata di pelle:/ senza muta da serpe/ ero donna scoperta» (p. 79), oppure da oracolo, tramite formule dai ritmi cantilenanti, prossimi allo stile della filastrocca: «nella tana della belva senza fame/ ho uno scalpo di carta da macchiare/[…] Mi rifaccio da lì/ – tu stira e si disfa/ per te sarò appena nata» (ivi); si tratta di fenomeni inediti all’interno della raccolta, anche se già sfiorati in precedenza, quando il soggetto era stato accostato all’immagine della «strega», ormai non solo a testimoniare un rifiuto al ruolo della maternità9, seppur qui ribadito («ti sacrifico l’esser madre rotta/ di sputo e scarti grigi negli spasmi», pp. 73-74), ma a delineare una poetica nuova, fatta di formule magiche e intrugli linguistici. Si veda qualche esempio di questa vanità della nominazione: «il corpo è spettro che si affolla/ grano che sfoglia/ acqua che esonda» (p. 76); «sfatto di sete saluti/ grondi la fronte» (p. 79); «mi si schiera nel cielo/ un grappolo appeso/ di piume in risacca di nero» (p. 81).
In ogni caso, al di là del godimento fiabesco di queste ultime pagine, sperimentato dall’autrice con passione e gioco delirante (vocazione segreta di Giovagnoli, per chi ha avuto il piacere di leggere i suoi inediti), è possibile anche rintracciare un estremo rigetto: «ho sotterrato me menade/ che piange nel bagno/ ora versa sull’acqua/ e fa fiume di fango» (p. 86). Troppo comodo pensare a un ultimo addio del soggetto ai suoi demoni, anche se una ricapitolazione appare comunque possibile; la mostruosità in Teratophobia non è più malattia o un’accusa rivolta a terzi (tra mostri ci si perdona), ma un tentativo fallito di riordino e di ritorno, fino all’aborto di sé.
[in te lavare nel sangue
la noce di un mostro
dal grembo:
abortirmi il passato] (p. 89)
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TESTI da «Teratophobia»:
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In te vorrei aprire abbagli
cauterizzare con la voce
quel tuo morto che chiama
dirti: ho smesso la ricerca:
Gerusalemme mi cammina a lato
[in te lavare nel sangue
la noce di un mostro
dal grembo:
abortirmi il passato]
.
Dirti: sul tuo petto ricado
a semi di pianto
riposa: rifaccio foresta
sullo schianto
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E adesso che se lo dico lo vedo
strofinarsi aggrappato alla gola
ingoiarsi col respiro il singhiozzo
Lo vedo che si aggiusta i vestiti
darsi un tono per strada ma teso
in un tendere il riso che è filo
allarmarsi appena sveglio al mattino
toccarsi disgustoso la pancia
stringere fino al graffio le gambe
picchiarsi la carne che c’è
Finché era notte ancora
e non un’anima sveglia
ma lui
.
Ora il mostro è questa bimba piegata
un conato scurito nel sogno
dicembre accigliato da padre
.
So adesso che nel dirlo lo vedo
lascio vivere me se lo dico
.
Ho un giro di lettere
che si accalcano a vuoto
si accovacciano come lepri irrequiete
– c’è che io non so stringerti
.
Anche un cassetto
in queste case
è un baratro aperto
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1 G. DELEUZE, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 249.
4 J. DERRIDA, Chōra in ID., Il segreto del nome. Tre saggi, Milano, Jaca Book, 1997, p. 74.
5 S. FREUD, L’interpretazione dei sogni, Newton Compton, Roma, 2010, p. 123: «Sembra che nulla possa raggiungere la coscienza dal primo sistema senza passare per il secondo agente; e questo non lascia passare nulla senza esercitare i suoi diritti e fare delle modifiche che ritiene adatte al pensiero che vuole essere ammesso nella coscienza. […] Noi consideriamo il processo del divenire cosciente come uno specifico atto psichico, separato e indipendente dal processo di fissazione e rappresentazione, e consideriamo la coscienza come un organo sensorio che percepisce degli elementi provenienti da un’altra zona».
7 C. BENE, Intervista a Mister Fantasy, 1982, disponibile su Youtube: «Il bambino ha il gusto dello spavento, della cantina buia che è infanzia dove da bambini ci rinchiudeva magari proprio per auto-terrorizzarsi. […] [Il bambino, ndr] si diverte proprio man mano che lo spettacolo scivola nell’irreparabile, in questo che io ho sempre definito “inumazione prematura di una salma infantile che scalcia nella propria bara”. […] Dovrebbe riaffiorare negli adulti sensibili il danno, la catastrofe di essere cresciuti».
9 S. FREUD, Il perturbante, cit., p. 1065: «Vi è il detto scherzoso che “amore è nostalgia”, e ogni volta che un uomo sogna un luogo o un paese e, mentre ancora sta sognando, dice a se stesso: “Questo posto mi è conosciuto, sono già stato qui prima”, noi possiamo interpretare quel luogo come i genitali o il corpo della madre del sognatore. Allora anche in questo caso è unheimlich quel che un tempo era heimlich, ossia familiare; il prefisso “un” è emblematico della rimozione».