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Febo cane metafisico

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È struggente, nella sua generosa profusione di scrittura e nell’ampiezza dei sentimenti, l’omaggio che Curzio Malaparte rivolge all’amato Febo (Febo cane metafisico, Passigli editori, pp. 68, euro 8,50). Il “caneluna”, con gli occhi chiari e il manto colore dell’astro in tutte le sue sfumature cromatiche; il trovatello, curato e accudito a Lipari nel 1933, che segue lo scrittore nei duri anni del confino imposto dal regime fascista e poi nella riconquista della libertà, quando il dissidente viene riammesso nel consesso civile grazie ai buoni uffici di Galeazzo Ciano. Compagno di un periodo tra i più travagliati nella vita di Malaparte, il simil-levriero siciliano finisce per diventare il suo unico ‘conforto vivente’, l’amico con cui guardare dalla soglia di casa lo spettacolo del mare al tramonto, con cui dormire, dal quale imparare la muta sopportazione e insieme un irredimibile impulso a vivere, nel quale rovesciare – tutta sguardi e segnali – la propria coscienza silenziosa. Come nota Giordano Bruno Guerri, citato nell’introduzione: “Una bestia con la quale si vive diventa a poco a poco come l’immagine di noi stessi, un’immagine talvolta appannata, sbiadita, talvolta accentuata. […] E’, in una parola, il nostro specchio interiore: specchio nel quale riconoscere la parte migliore di me, la più simile, la più pura, la più segreta”. Per Malaparte Febo è assai più di una ‘bestia’: “il mio solo incomparabile amico”, per usare le sue stesse parole, il compagno di stanza, di letto e di un’avventura estrema, insieme penosa ed entusiasmante. Quasi inevitabile che lo scrittore ne racconti la storia con accenti classici, da poema epico, e talvolta in un’atmosfera fiabesca, in preda a un rapimento bambinesco. Il “nasino rosso” del levriero si mischia alle “spoglie opime” di cui si ciba nella bottega di un pescatore. La vicenda dell’amore tra il “cane come me” e il suo padrone è quella di un incontro tra reietti, la vicenda di un mutuo riconoscimento e di un mutuo bisogno. Il cane Febo, l’affetto non umano eppure cruciale della sua vita, sottolinea la specialità – insieme dono e maledizione – di Malaparte, la solitudine innata nell’indole, accentuata dall’ostracismo che lo scrittore sente decretare nei suoi confronti dal mondo culturale e, a tratti, dalla stessa società civile.

Di Febo Malaparte offre una descrizione a tutto tondo: fisica, ma anche genealogica e caratteriale. Con un’abilità speciale di fondere storia e geografia, zoologia e suggestione letteraria, che l’autore mostra anche nel terzo brano del libro, quando – a suggellare l’amore per i fratelli a quattro zampe – si sofferma suggestivamente sui “cani di Maremma” (altri reietti, anime nobili dall’ingrato destino). Febo ha “gli orecchi diritti, il muso proteso, gli occhi azzurri fissi avanti, la coda non alta né bassa, ma allungata come un timone da corsa”; appartiene alla razza dei ‘cerneghi’ (o cirnechi, sorta di levrieri) che “nelle isole intorno alla Sicilia, specie a Lipari, si è conservata pura, al pari degli abitanti, dove il sangue greco ancora predomina sul più tardo sangue saraceno. […] I cerneghi di Lipari son color cenere gialla e macchiati di rosa, son più corti, più piccoli e assomigliano come fratelli ai cani delle tombe etrusche”. Quanto al carattere, a Febo “non piace la natura, le glorie e le sue bellezze”, “non piace la città”, “piace la campagna, con l’erba, gli alberi, i fossi, i muriccioli”, “piacciono le bandiere”, “piacciono le trombe e il rullo dei tamburi”, “non piace il mare” (e via con una descrizione del “bestione stupido e brutale, sempre a testa bassa a cozzar contro la riva”), “non piace il vento” (e intanto il vento svolazza, “questo invisibile uccello, dalla fronte, dal muso pieno di ali”), piacciono il sole e la luna, che subito diventano, nella prosa evocativa di Malaparte, un’arancia e un viso di donna con le labbra pallide, oppure una “bionda lepre” in corsa per i prati del cielo. E’ un collage di emozioni, di bozzetti e impressioni, descrizioni eleganti (talvolta perfino linguisticamente ‘acrobatiche’) che hanno in sé la propria giustificazione, come una bellezza in parata non devono significare nulla in particolare. Febo è il pretesto: il grimaldello che scardina la meraviglia della natura, che riscopre la sua purezza bambina, che la riempie di simboli, spiriti, parvenze, e ne restituisce il senso misterioso. Come della vita, come dell’uomo regredito alla sua essenza naturale. Se potessi rinascere, dice Malaparte, vorrei essere cane per “poter inventare il mondo, e tentar, così, di correggere gli errori della creazione non dal punto di vista umano, ma da quello di un cane. Ché vorrei essere cane proprio per tutto ciò che più ha di animale, e più in lui rivela un istinto lontanissimo da quello dell’uomo, una dignità, una libertà, una morale diverse”. Nella concezione dello scrittore ‘maledetto’ il cane rappresenta l’istinto, l’impulso, la coscienza fisica di sé che prevale su ogni distrazione e lusinga del mondo, su ogni tentazione del bene e del male, di una gioia o di una tristezza eterodirette. Di fronte all’uomo, il ‘migliore amico’ incarna un monito (a vivere con un sereno distacco ‘animale’ e un perenne fremito) e al tempo stesso uno specchio: delle qualità più profonde ed elementari di ogni vivente. L’identificazione del cane con la natura lo rende capace di coglierne le sfumature più lievi, le presenze più impalpabili e quasi spettrali. Lo trasforma, insomma, in un augure, o perfino in un profeta. La simbiosi perfetta con Febo porta addirittura Malaparte a voler morire con lui e come lui, quasi che non potesse sopravvivere alla perdita della sua ‘coscienza esteriore’ e volesse invece partecipare di quella sublime dipartita ‘virile’ – naturale e senza angosce – che spetta agli esseri più puri.

Leonardo Guzzo

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