“L’arte: una congrega di svitati”, chiosa Emanuele Trevi nel suo ultimo libro, Sogni e favole. Questa congrega di “matti” che sguazzano nell’inganno, che indugiano nella finzione, che assecondano emotività e deliri, è l’unica casa che, forse, lo scrittore conosca, calda abbastanza per ristorarsi nelle sere d’inverno e illusoria come si deve per attraversare la vita pensando che in fondo ne sia valsa la pena.
Giunto alla maturità, alla soglia dei 55 anni, Trevi consegna delle pagine traboccanti di malinconia, quella sottile del tempo perduto che non era meglio o peggio della contemporaneità, ma solo il tuo tempo – fatto di carne, anima, vigoria e anelito del domani. Il passo dell’autore per le strade di Roma sotto una pioggerella invernale pungente ed inesorabile, è pesante tanto quanto le sue parole: dense, pastose, stratificate, un groviglio emotivo di ricordi, citazioni, intuizioni e abbattimenti. Sullo sfondo tre personaggi del secolo scorso, che Trevi ha conosciuto in quello scampolo di vita romana di fine Novecento, quando ai cineclub si piangeva davanti ad una pellicola di Tarkovskij e la Biblioteca Nazionale era “il luogo” dove documentarsi tra pagine ingiallite e scaffali alti come torri.
Cesare Garboli, il grande critico, Arturo Patten, il fotografo americano, e Amelia Rosselli, la poetessa (“l’anima in pena”), attraversano il libro (un po’ saggio, un po’ memoir) come fantasmi che hanno lasciato nella mente dell’autore dei segni indelebili al loro passaggio. Patten era vitalità all’ennesima potenza, cittadino del mondo e amante dell’universo, uno di quegli artisti che vivono la vita con i nervi a fior di pelle, tutta tremiti e scoppi, e che piuttosto che soccombere ad una malattia infida (AIDS) che spesso ti lascia morire lentamente, come una candela che si consuma, decide di mettere la parola fine nell’ennesima terra chiamata casa, la Sicilia. Amelia Rosselli era la luce e l’ombra, la dolcezza e la paranoia, la generosità d’animo e l’ingranaggio rotto dell’esistenza, una donna e un’intellettuale che da anni viveva sola con i suoi nemici piantati in testa, nascosti nei fili del telefono, acquattati nelle spire degli elettrodomestici e che un giorno, per conquistare finalmente un dorato silenzio, decide di lanciarsi dal balcone di casa. Garboli era potenza e intelletto, smisurata cultura e caratteraccio, egocentrico e seducente. Oltre all’amicizia e alle chiacchierate proficue, ha lasciato in eredità a Trevi un sonetto del Metastasio da cui prende il titolo (e le mosse) il libro: Sogni, e favole io fingo.
Se c’è un filo rosso tra le pieghe di questo libretto che odora di meraviglia, è l’idea alla base del sonetto del compassato, razionale e abile poeta di corte: la vita è un sogno e quando l’artista scrive di questi sogni, essi sono talmente reali (imitano la vita in fondo) che l’artista stesso si commuove o si sdegna. Trevi si stupisce che uno come Metastasio – che l’autore apprezza infinitamente – abbia potuto scrivere che “tutto è menzogna”, proprio mentre versava calde lacrime sulla sua Olimpiade (anno 1733). Ma questo topos letterario è intrinseco alla storia dell’uomo e alla sua sete di conoscenza. Si pensi a Platone e all’anamnesi, ovvero il ricordo di tutte le esperienze sensoriali vissute dalla nostra vita. Un ricordo confuso, velato dell’idea iperurania, quando eravamo soltanto anima, puro intelletto. Il concetto viene ripreso da Sant’Agostino, la cui fede spinge verso un bene supremo che coincide con la verità, ma che al contempo teorizza il tempo e lo spazio come proiezioni dell’anima, e quindi getta l’uomo in un relativismo assoluto che tanto si accorda alla dimensione del sogno.
Nel barocco questa correlazione tra vita e sogno diviene il segno di un’epoca: Shakespeare prima (“Noi siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita”, da La Tempesta, 1610-1611), e Pedro Calderòn de La Barca poi (La vita è sogno del 1635 con il sublime monologo di Sigismondo), aggiungono un elemento in più e gli strati di lettura – come in un gioco di specchi – approdano all’Illusion comique di Corneille Se la vita è un sogno, il sogno è la verità della vita e l’arte – essendo rappresentazione – è la verità dell’esistenza, perché essa altro non è che teatro, illusione, ombre che si agitano e poi svaniscono. E così si arriva al Metastasio e al suo sonetto, un discorso preromantico sull’arte e sull’immedesimazione con la creazione artistica: i personaggi da lui creati sono fantasmi agitati dal suo vissuto.
Trevi, a rafforzare la trama del suo discorso, cita Puškin (“Verserò lacrime sulle mie fantasie”) e Pessoa (“Il poeta è un fingitore. Finge così completamente/che arriva a fingere che è dolore/il dolore che davvero sente”), ma nel frattempo sta scivolando nel suo sogno che si confonde con la scrittura, l’arte appunto, e che dà a queste pagine il sapore del commiato, dell’addio in tono minore, avvolto da un paesaggio crepuscolare, perché è questa la sua cifra, di vita e di scrittore. Non ci sono fanfare, strepiti, verità definitive, autoindulgenze, ma piuttosto sussurri che lacerano il petto di chi ha la forza di carpirli e languide memorie che da particolari – come in tutta la grande letteratura – si fanno universali.
“Non ho avuto la costanza necessaria a diventare un professore, e non ho avuto il coraggio di essere fino in fondo un desperado – per vedere finalmente cosa c’era, in fondo al pozzo che ho sempre sentito gorgogliare sotto i miei piedi, con tutte le sue esalazioni. Né ardente né freddo, né carne né pesce, ho abitato come potevo il mio fallimento”, scrive Trevi. Ma forse sta proprio nella qualità del fallimento l’autenticità dell’opera di un artista che con fervore si dibatte nella sua finitudine per aspirare all’infinito. Di tal fatta è, forse, la qualità del fallimento che Trevi ci narra.
Barbara Tomasino