Ha il passo e la modestia dei grandi, Javier Marias, premiato per Berta Isla come migliore libro dell’anno secondo la classifica di qualità 2018 de “La lettura” del Corriere della sera al Teatro Grassi di Milano.
Uno scrittore di parola che, in qualche modo– un’impressione personale-, comincia ad assomigliare a Borges: la figura, la lingua che richiama il grande argentino, l’ironia o l’auto ironia che è impegno e leggerezza, quelle dello scrittore spagnolo, che non ravvisa nulla di speciale nei suoi romanzi, soprattutto mentre ci lavora, e che sempre si stupisce dell’accoglienza che il mondo riserva loro, e per questo, a cose fatte, si convince che forse qualcosa, in quei libri, funziona. Una battuta ma anche uno stupore che conserva. Perché lui continua a scrivere e riscrivere, a rimodulare le tematiche che gli sono proprie e che ci fanno interrogare sulla responsabilità del nostro parlare, che siamo consapevoli o meno dell’uso che di quelle parole facciamo e delle intenzioni e delle conseguenze che ne derivano.
Le parole non sono innocenti, non dovremmo esserlo noi, sono cariche di dimensioni, riverberi (o “riverberanze”, come dice Marias, che ha comunque una padronanza dell’italiano che stupisce- ma conosce molto bene anche francese e inglese) e connotazioni che possono scatenare tragedie (o anche cose belle, aggiunge), ma non sono inerti, oltre al fatto che servono ad accumulare informazioni e a proteggersi o denunciarsi. E a questo punto ricorda che, avendo passato l’infanzia e parte della giovinezza sotto la dittatura di Franco, l’ha imparato molto bene, sulla sua pelle: se qualcuno nominava Franco con il termine caudillo, duce, bisognava parlare con lui tentando di cautelarsi, di non scoprirsi; se invece lo si nominava come parvo, nano, si poteva aprirsi e parlare liberamente.
E dunque non dobbiamo scegliere le parole senza pensare, rinunceremmo allo strumento critico per eccellenza che ci rende consapevoli delle implicazioni che possono derivarne. Tutti parlano, la lingua è la cosa più democratica che ci sia; forse bisognerebbe tacere, così dice all’inizio de Il tuo volto domani, ma poi seguono più di un migliaio di pagine perché i suoi protagonisti sempre si fermano a pensare, sempre si interrogano, e mai trascorrono senza ragionare sulla parola e sull’incantamento che getta sul mondo. In Berta Isla, splendido ritratto di donna, Marias mette in scena l’attività dello spionaggio, senza raccontare i fatti, le situazioni, le avventure che implica (non è James Bond Tomas Nevinson, il protagonista) ma ciò che porta e ciò che segue alla scelta di farsi “spione”, per sostanziare il suo discorso sull’inconoscibilità dell’altro e di se stessi- che è il destino di tutti: chi è che conosce abbastanza della vita di un altro, dei propri genitori, ad esempio, prima che diventassero i nostri genitori?
Si crede di sapere, o ci si disinteressa della cosa, ma sempre ci si accontenta del racconto per formarsi opinioni e certezze, e non basta mai perché, alla fine, non si conosce neanche se stessi, il punto di vista è sempre troppo parziale e non si possiedono elementi a sufficienza- così per il giudice che non è presente sul luogo del delitto e deve scegliere, estrapolare, giudicare l’incompleto; e come in David Copperfield di Dickens, dice Marias, dove il protagonista si presenta ma fa subito una parentesi che suona in questo modo: io sono questo e quest’altro- o almeno è ciò che mi è stato detto e io ci credo: “Si vedrà da queste pagine se sarò io o un altro l’eroe della mia vita. Per principiarla dal principio, debbo ricordare che nacqui (come mi fu detto e credo) di venerdì, a mezzanotte in punto. Fu rilevato che nell’istante che l’orologio cominciava a battere le ore io cominciai a vagire”. Sappiamo ciò che ci viene detto, che è un punto di vista, un’angolazione, una sfaccettatura di ciò che accade, o non è accaduto, ma avrebbe potuto. E dimentichiamo presto perché tutto sfuma e si ritira.
Ci invita, Marias, a recuperare interrogativi che, in un mondo che va in fretta, non rallenterebbero il nostro passo, come mai rallentano i suoi romanzi, così pieni di digressioni che danno sostanza e semmai corpo alla trama: mai si vorrebbe che l’azione fosse depurata da quella riflessione continua e stringente per essere liberi di seguirne le giravolte; mai si pensa, grazie a lui, che pensiero e azione siano campi separati, perché anche il pensiero è azione, anche la parola lo è. Se Macbeth l’avesse supposto la sua tragedia non sarebbe stata tale. E la tragedia del nostro presente, così frivolo e superficiale, potrebbe essere evitata.
Rossella Pretto