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H. G. Wells anteprima. Il rimedio miracoloso

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Herbert Georges Wells è considerato universalmente come uno dei padri indiscussi della fantascienza, un precursore insieme a Jules Verne. E il collegamento immediato con il suo nome è quello con i suoi romanzi più noti: La macchina del tempo, La guerra dei mondi e L’isola del dottor Moreau. Il rimedio miracoloso, invece, è tutt’altra cosa. In uscita oggi da Fazi (con la traduzione di Chiara Vatteroni), questo libro si colloca nell’alveo del naturalismo in chiave sociale in linea con le opere di Charles Dickens. La strada percorsa da Wells è quella dell’ironia, che si insinua nel tessuto dell’Inghilterra tardo vittoriana svelandone la trama. Il “pretesto” narrativo si sviluppa seguendo la storia di George Ponderevo, che diventa apprendista nella farmacia dell’ambizioso zio, e vede la sua vita trasformata dall’invenzione del ricostituente Tono-Bungay, preparato farmaceutico di grande successo, su cui si fonderà un effimero impero finanziario. Ciò che riporta il racconto verso quote più notoriamente wellsiane è il terntativo di George – che intanto ha intrapreso una carriera aeronautica – di rubara un composto radioattivo – il Qap – custodito su un’isola al largo delle coste africane, per cercare di salvare gli affati dello zio. L’impresa fallisce, e il protagonista organizza la fuga dello zio, a bordo di un aereo sperimentale da lui progettato e costruito.

Si comprende, quindi, che Il rimedio miracoloso, si muove su due piani diversi e convegenti: uno di impianto “classico” (per di più diaristico), che si muove su un piano sociale e si sofferma sulle storie de’amore del protagonista, e un’altro che tradisce in pieno la tentazione continua dell’autore di compiere il balzo e staccarsi – come in volo – dalla “consuetudine”. L’avventura, così, porta a definitivo compimento il lavoro satirico e ironico svolto dalla prima parte, delineando in pieno la metafora costruita da Wells per infilzare su uno spillo la moderna e arrivista borghesia anglosassone in disfacimento.

Paolo Melissi

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E mentre procedevo lungo l’Embankment, il primo effetto fu di totale avversione allo zio. Rimpicciolì – per un po’ continuò a rimpicciolire in prospettiva – finché fu soltanto un ometto molto squallido in una sudicia stradina secondaria, che spediva qualche centinaio di bottiglie di porcheria a degli sciocchi acquirenti. I grandi edifici alla nostra destra, gli Inns e lo School Board com’era allora, Somerset House, i grandi alberghi, i grandi ponti, il profilo di Westminster di fronte, ebbero un effetto di grigia vastità che lo ridussero alle proporzioni di un affaccendato scarafaggio dentro una crepa del pavimento.

Poi il mio occhio colse sul lato meridionale i cartelloni pubblicitari del «Cibo di Sorber», del «Vino ferrico di Cracknell», insegne molto vivaci e opulente, illuminate di notte, e mi resi conto di come sembrassero meravigliosamente a loro agio, di come fosse evidente che appartenevano completamente alla scena.

Vidi un uomo uscire di corsa dal palazzo di Scotland Yard; il poliziotto si toccò l’elmetto per salutarlo: lui aveva un cappello e un portamento che assomigliavano in modo stupefacente a quelli dello zio. Dopo tutto… Cracknell in persona non sedeva in Parlamento?… Tono-Bungay mi chiamò a gran voce da un cartellone nei pressi di Adelphi Terrace, lo vidi in lontananza vicino a Carfax Street, sbraitò di nuovo verso di me a Kensington High Street e fece un grande chiasso; lo vidi sei o sette volte mentre mi avvicinavo al mio alloggio. Sicuramente aveva l’aria di essere qualcosa di più di un sogno…

(…)

Non appena entrai nella stanza mi accorsi del cambiamento che l’avvento del Tono-Bungay aveva introdotto con la stessa chiarezza con la quale avevo notato il nuovo cappello a cilindro dello zio. I mobili colpirono il mio sguardo per la loro natura quasi maestosa. Le poltrone e il sofà erano coperti di un chintz che dava loro un vago e remoto sapore bladesoveresco; la cappa del camino, la mantovana, il lampadario a gas erano più grandi e più belli di quelli ai quali ero abituato a Londra. E a farmi entrare fu una vera cameriera che aveva una cuffietta con veri nastri e grandi quantità di capelli rossicci. C’era anche la zia, con un aspetto vivace e grazioso, con uno scialle da tè ornato di gale che mi sembrò la quintessenza dell’eleganza. Era seduta su una poltrona accanto alla finestra aperta e aveva una gran pila di libri dall’etichetta gialla sul tavolino accanto a sé. Davanti al grande caminetto decorato di carta stava un portadolci a tre ripiani che mostrava torte assortite e, sul grande tavolo centrale, c’era un vassoio con tutto l’occorrente per il tè tranne la teiera. Il tappeto era spesso e un tocco avventuroso era dato da numerosi tappetini di pelli di pecora colorati.

(…)

Così feci pace con lo zio e ci mettemmo al lavoro su questa bella impresa: vendere una porcheria leggermente nociva da uno scellino e tre pence e mezzo a due e nove alla bottiglia, compreso il bollo governativo. Mettemmo in moto il TonoBungay! Ci portò ricchezza, credito, rispetto, la fiducia di innumerevoli persone. Tutto quello che lo zio mi aveva promesso si dimostrò vero e inferiore alla realtà; il Tono-Bungay mi portò una libertà e un potere che nessuna vita di ricerca scientifica, nessuna appassionata attività al servizio del genere umano avrebbe mai potuto darmi…

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