Memoir e autofiction rappresentano uno dei settori più vivaci e attivi nel panorama narrativo occidentale degli ultimi anni. L’autofiction è cosa nota in Francia, dove la sua vecchia e lunga storia è stata in parte ravvivata dai recenti esempi di Annie Ernaux e Emmanuelle Carrère. Negli Stati Uniti l’autofiction è un po’ una cosa nuova, sebbene spesso assimilata alla lunga tradizione di autobiografie. Se da una parte l’autofiction francese nasce e vive nel brodo culturale europeo, e è quindi figlia di ermeneutica, esistenzialismo, psicanalisi, e mostra sempre un’ostinazione a considerare il mondo come un coacervo di interpretazioni quasi privo di fatti, l’autofiction americana ha preso invece i geni del pragmatismo, della nuova filosofia della scienza e di una sana e salubre visione scientifica del mondo. Se l’autofiction francese nasce dalla Storia e da un’attitudine induttiva (si passa dal particolare memoiristico a un presunto generico), quella americana ha un carattere più epistemologico, nasce quasi sempre da questioni fisiche, mediche e patologiche, e usa la storia personale come via di accesso a un universale. È quello che fa Sarah Maguso su The Two Kinds of Decay, partendo dalla sindrome di Guillan-Barré, quello che ha fatto Mike Scalise su The Brand New Catastrophe con l’acromegalia, quello che ha fatto Porochista Khakpour con una malattia di Lyme non diagnosticata su Sick, o ancora quello che fa Joselin Linder con la genetica su The Family Gene e quello che fa Melissa Broder con disturbi di ansia e depressione su So Sad Today. Ultimo ma forse più importante e imponente esempio di autofiction che nasce dal racconto di una condizione patologica è The Recovering di Leslie Jamison.
I libri citati sopra sono tutti di autrici e autori più o meno esordienti. Altra cosa nuova nella narrativa attuale, e già sottolineata da Edmund White in un suo intervento del 2015: il suo terzo romanzo, A Boy’s Own Story del 1982 era nato come autobiografia, ma all’epoca non era concesso a un giovane e ancora misconosciuto autore di uscirsene con un memoir, genere allora riservato a persone famose. La soluzione fu semplice: Edmund White dovette solo presentare la sua autobiografia come “Romanzo,” cosa che gli permise anche di sfumare i particolari personali e rendere il suo io personaggio del libro un tipo ideale universalmente rappresentativo. Oggi correzioni di questo tipo sono all’ordine del giorno, l’ha fatto Dave Eggers su A Heartbreaking Work of Staggering Genius, per esempio, e lo fa continuamente Annie Ernaux e è in genere il protocollo standard per le faction: strutture fittizie su cui accomodare una storia reale. D’altro canto, i romanzi autobiografici più puri seguono invece la regola del patto autobiografico di Philippe Lejeun, ossia un patto speculare alla sospensione dell’incredulità per i romanzi, e nel quale l’autore si impegna a mostrarsi esattamente per quello che è, nel modo più puro e confessionale possibile.
The Recovering unisce faction e romanzo autobiografico, e nondimeno si presenta come un universale che tratta non una questione personale e particolare ma il rapporto tra natura umana e dipendenze. Leslie Jamison l’ha fatto incastonando il racconto di sé all’interno della sua tesi di dottorato a Yale (The Recovered: Addiction and Sincerity in 20th Century American Literature seguita da Amy Hungerford), che prendeva in esame alcuni testi fondanti della letteratura anglo-americana in relazione a alcolismo e dipendenze in generale—Jean Rhys, John Berryman, Charles Jackson, George Cain Malcolm Lowry, Denis Johnson, David Foster Wallace—arricchito con alcuni esempi presi dalla cultura pop (Billie Holiday e Amy Winehouse). In questo modo The Recovering presenta tre gradi crescenti di universalizzazione: il racconto della sua personale odissea con l’alcolismo viene giustapposto alle esperienze documentate da scrittori dell’ultimo secolo, vite private rese pubbliche, in un certo senso, e sussunto sotto un universale che nasce da considerazioni più scientifiche sulla natura umana e inserito in un contesto storico e sociale che prende in esame le politiche sull’abuso di alcolici e di droga, dalle campagne di Harry Anslingerr, la War on Drugs di Nixon, l’Anti-Drug Abuse Act di Reagan e la campagna “Just Say No” di Nancy Reagan fino alla National Drug Control Stategy di Bush padre.
Una relazione piuttosto promiscua con l’alcol è spesso un tema ricorrente nella vita di molti scrittori, sia che riconoscano e confessino una dipendenza, sia che la tengano nascosta in un rimosso personale: tutti sembrano voler riempire una sorta di “vuoto dell’anima.” Il fatto è che quando si usa alcol (o altra sostanza), non si riempie un vuoto con un qualcosa, ma con una fame, una dipendenza da uno stato di beatitudine provvisoria e artificiale. È la storia ridotta all’osso degli scrittori “alcolisti” presi in esame, e è anche la storia personale di Leslie Jamison, intrecciata con altre sventure cliniche che la Jamison ha descritto e raccontano più volte (alcolismo, ricaduta, autolesionismo, aborto, intervento chirurgico al cuore).
Nel 2014, all’indomani della pubblicazione dei saggi di The Empathy Exams, Leslie Jamison pubblicò un articolo su The Guardian in cui si difendeva da alcune accuse di solipsismo ricevute, accuse che spesso nascondevano accuse di narcisismo, arrivando a osservare che “se la definizione di solipsismo è ‘una teoria che sostiene che l’io è l’unica cosa esistente,’ allora poche cose respingono il solipsismo con più forza di una confessione resa pubblica. Questo tipo di confessione crea inevitabilmente un dialogo.” Lungi dall’essere solispista o peggio narcisista, The Recovering è una voce da declinare alla prima persona plurale.
Quando decisi di scrivere un libro sul recupero, non volevo renderlo unico. Niente, nel recupero, era stato unico. Avevo bisogno della prima persona plurale, perché il recupero aveva significato immergersi nella vita degli altri.
La storia che racconta Leslie Jamison, interpolandola con altre storie, è, e qui c’è un’altra differenza con l’autofiction francese, una forma di confessione. Il confessionalismo nasce con Sant’Agostino, nella sua forma romanzata più vicina a noi, forse il primo esempio che si può fare, tra quelli che possono avvicinarsi al lavoro della Jamison è Thomas De Quincey, Confessions of an Opium Eater (1822). Ma non solo: la confessione americana non ha solo la forma della confessione della tradizione cristiana cattolica. Assume molto più spesso la forma della professione di fede della tradizione evangelica e protestante. Più che confessare dei peccati nell’intimità dell’anonimato, si professa, si testimonia una storia, una colpa, una propria debolezza. Dall’uno solipsistico ci si apre a un molti comunitario. Dall’incomunicabilità di una realtà soggettiva, ci si apre a una verità che può essere utili ad altri.
Per questo la prima cosa che fa Leslie Jamison, dopo aver introdotto il tema e aver preso atto di come l’alcolismo, accanto a depressione e altre patologie, sia stato drammatizzato e romanticizzato da una cultura che si vuole troppo figlia del romanticismo, procede a demolire questa idea, a demolire quel “qualcosa di sacro” che può diventare “l’inizio di una carriera,” quell’alcolismo che viene visto come una difficoltà desiderabile e rischia di ridursi a un braccio di una metafora. Il riferimento a Susan Sontag di Illness as Metaphor è dichiarato: già la tubercolosi era stata traslata, metaforicamente, in qualcosa che ti rende “interessante.” Novalis, Mann e Nietzsche hanno contribuito in modalità diverse a costruire il luogo comune dell’artista malaticcio, e la malattia era diventata “un pretesto per l’ozio, e per evitare gli obblighi borghesi in modo da poter vivere solo per la propria arte.” L’immagine culminante è quella della diva in fin di vita che canta con voce da angelo l’aria della sua morte: la malattia diventa Arte, tanto da sembrarne una necessaria implicazione. Lo stesso accade oggi con alcolismo e depressione: Melissa Broder ha dovuto rispondere a chi la accusava di non prendere sul serio il suo disturbo e di scherzarci troppo sopra, David Foster Wallace ha cercato di destabilizzare il topos esistenzialista dell’hip ennui dell’intellettuale, allo stesso modo, osserva Leslie Jamison, leggiamo e ammiriamo scrittori alcolizzati, “Noi amiamo i nostri eroi intossicati. Noi non vogliamo vederli diventare sobri.” E per una Billie Holiday che mette in guardia contro i pericoli delle dipendenze, ci sarà sempre una Amy Winehouse che canta “They tried to get make me go to rehab, I said no no no.”
Spogliato da tutti i pericolosi e falsi luoghi comuni di derivazione romantico-esistenzialista, l’alcolismo e la dipendenza in generale si riduce a due cose: “ una serie di neurotrasmettitori e un insieme di storie che sono state raccontate su tale alterazione.” Le storie sono quelle schiette, dirette, prive di metafore e di ironia degli incontri degli AA. Quelle raccontate anche da David Foster Wallace su Infinite Jest e che vengono discusse abbastanza dettagliatamente in alcuni capitoli di The Recovering. Quelle storie che nascono dalla necessità di condividere e di stabilire un contatto anche intimo con gli altri, diventano metafora del senso ultimo della letteratura: la famosa frase di Joan Didion, “Ci raccontiamo delle storie per vivere” viene esplicitata in senso più comunitario:
Il recupero mi rammentava che il modo di raccontare le storie riguardava, in definitiva, la condivisione, non l’autoinganno. Il recupero non diceva: «Ci raccontiamo delle storie per vivere». Il recupero diceva, invece: «Raccontiamo agli altri la nostra storia per aiutare anche loro a vivere».
Negli incontri delle AA si raccontano storie vere, prosaiche, totalmente prive di ironia e di retorica, si va diritti al contenuto. Non c’è solipsismo, non c’è narcisismo, ognuno sa di essere uno in mezzo a tanti. È la cosa che ha imparato Berryman negli incontri di disintossicazione e recupero: farsi umile e ridursi a “un minuscolo numeratore, un sé bloccato, sopra il ben più grande denominatore della comunità.” Leslie Jamison così riesce a rendere l’alcolismo una doppia operazione retorica: sineddoche dei meccanismi biologici e sociali che possono rendere un essere umano dipendente da una sostanza, e metafora per il senso comunitario e collettivo che nasce dal ricovero da quella dipendenza mediante il racconto di sé ad altri, e soprattutto mediante l’ascolto umile e partecipativo delle storie altrui, cosa che in ultima analisi è la letteratura. The Recovering nell’imponenza delle sue 550 pagine (450 di testo e 60 di note), non è il solito memoir, o un altro memoir tra tanti, ma è anche un memoir. È un saggio sulle debolezze della natura umana e sul bisogno di affrontarle in qualche modo, è e è un trattato di letteratura del novecento come veicolo per la creazione di un senso comunitario.
Percorsi:
- Thomas De Quincey, Confessions of an Opium Eater (1822)
- Charles Jackson, The Lost Weekend (Farrar & Reinheart, 1944)
- Billie Holiday (with William Dufty), Lady sings the Blues (Doubleday, 1956)
- John Berryman, Recovery (Farrar, Straus & Giroux, 1973)
- Susan Sontag, Illness as Metaphor (Farrar, Straus and Giroux, 1978).
- Sarah Manguso, The Two Kinds of Decay (Farrar, Straus & Giroux, 2008)
- Augusten Burroughs, Dry (St. Martin Press, 2003). Dry (trad. it. Annamaria Raffo, Alet, 2003)
- Violetta Bellocchio, Il corpo non dimentica (Mondadori, 2012)
- Olivia Laing, The Trip to Echo Spring: On Writers and Drinking (Camouflage, 2013)
- Melissa Broder, So Sad Today (Grand Central Publishing, 2016)
- Mike Scalise, The Brand New Catastrophe (Sarabande, 2016)
- Joselyn Linder, The Family Gene: A Mission to Turn My Deadly Inheritance into a Hopeful Future (Ecco, 2017)
- Porochista Khakpour, Sick (Harper Perennial, 2018)
- Kristi Coulter, Nothing Good Can Come from This (FSG, 2018)
- Esmé Weijun Wang, The Collected Schizofrenia (Graywolf, 2019)
[Paolo Latini, da www.americanorum.wordpress.com]