Scandagliare gli abissi dell’animo umano, può senza dubbio ottenebrarci ma anche dare accesso a mondi talmente sotto quota, dove si possono incontrare creature eccezionali capaci di dipanarsi in un mondo d’oltreconfine e dove non di rado risplendono perle che, come d’incanto, il destino ha voluto brillassero nei vortici più bui. Con la pazienza del rabdomante, il buon Stefano Scrima sceglie stavolta il sottosuolo dei misteri più cogenti dell’umana condizione, perché, parafrasando Camus, se c’è una questione filosofica veramente seria, prima ancora del suicidio, è la penuria di quella vita con cui si scende inesorabilmente a patti, per continuare a vivere o per morire, sempre che vivere non sia un morire a rate.
Un libro, questo, che ha titolo e sottotitolo perfettamente intercambiabili: la vita malinconica è arte di soffrire, e quest’ultima d’altronde non può che sfociare nella vita malinconica. La sofferenza che per molt* hanno inopinatamente elevato a vocazione e che i più, prima o dopo diventa una compagna di viaggio con cui è necessario interloquire, e allora diventa anche un’arte saperci convivere. Scrima, con parole centellinate come se fossero oro, quindi altamente implacabili, affronta la questione incastonando filosofia, medicina, storia e poesia (la propria come grido liberatorio alla fine del volumetto) disegnando vasi comunicanti assai pregevoli e ricchissimi di spunti. Un’analisi talmente lucida che viene da pensare che egli stesso possa parlare di ciò che ha vissuto in prima persona; in fondo, il filosofo pigro, nauseato e che non vuole morire, per rimarcare il suo ennui editoriale, lambisce su diverse latitudini il tema, come se per gradi volesse arrivare ad affrontarlo de visu. Il deserto dell’anima, come una sorta di lutto di Dio, che si abbatte nell’uomo attraverso il sentimento malinconico “facendoci avvertire con estrema ruvidezza tutto l’attrito del nostro essere nel mondo”, forgia ciascuno secondo il proprio temperamento e il proprio vissuto, talvolta dando al genio l’occasione per disvelarsi; in un capitolo dedicato ai grandi spiriti di ogni tempo, “Malinconie”, Scrima rammenta personaggi di spessore come Ludwig van Beethoven che fa coincidere il suo periodo più plumbeo con quello “eroico” delle più immortali sinfonie, quasi come ribellione attraverso l’arte nei confronti del destino ingeneroso che si stava accanendo su di lui. Od ancora Vincent Van Gogh, che pure soccomberà al mal di vivere sparandosi alla testa, che in una certa fase acuta del suo logoramento decide di optare per quella “malinconia attiva” che lo riporta a disegnare trasferendo nell’arte la sua angoscia provando a liberarsene attraverso essa. Certo, malinconia è una parola brutta, in alcuni manuali medici è usato quale sinonimo di depressione, e Scrima si appresta sin dalle prime righe ad avvertirci che non è tra i suoi intenti quello di farne l’elogio. Gli editori di Sartre gli preferirono “La nausea” a “Melancholia”, come in origine doveva essere il manoscritto. Ma nausea, noia, ansia, angoscia sono in fondo solo “forme” della primigenia malinconia, figlia prediletta e, forse, più raffinata della Sofferenza. Non c’è solo la “notte oscura” dei mistici, come momento altissimo di contemplazione del mistero divino, ma una più laica aridità esistenziale che si sprona a pensare, a ri-pensarci, a prendere consapevolezza della nostra libertà e della nostra finitudine, con esiti comunque catartici in un segno o nell’altro. Questo piccolo manuale ci fa da viatico: necessario, come ogni buon libro.
Stefano Marullo