Alcune impressioni sul romanzo
L’uomo lavora in un aeroporto. Controlla i bagagli dei viaggiatori. L’uomo vive da solo, con il suo cane Flick. Alla domanda di cosa trovi di bello nel suo lavoro, lui risponde: … il fatto di guardare. Guardo la gente. Ce n’è di ogni tipo.
Osserva, immagina la vita degli altri. Di un viaggiatore in particolare, a volte immagino che anche lui potrebbe cercare di figurarsi la mia esistenza, le mie serate al rientro dal turno, la vita di un tempo con mia moglie, i miei figli, che arriva e resta una settimana, e poi ritorna a casa. L’uomo dell’aeroporto lavora in questo luogo di transito per eccellenza, dove si vive il passaggio. Dove si vive la frontiera, il rapporto con l’altro e con lo sconosciuto sulla cui vita un acuto osservatore può fantasticare, proiettare. Fantasmi. I rapporti che abbiamo con i piccoli oggetti quotidiani: i fumetti pornografici che cadono dalla borsa del viaggiatore dopo un controllo di routine. L’uomo dell’aeroporto framezza le storie con delle domande, normali e metafisiche insieme, si chiede cosa penseranno gli angeli di noi: ci guarderanno un po’ severi, un sopracciglio sollevato, ma insieme incuriositi, forse addirittura complici.
È un romanzo delle altezze questo, del cielo. Di storie intrecciate: quella immaginaria del viaggiatore, quelle descritte intorno ai fumetti pornografici: c’è qualcosa che mi eccita e insieme mi disturba, in quelle storie. Perché è come se quelle donne e quegli uomini non fossero veramente nudi. È come se fossero vestiti di una pelle nuda.
Che cosa sono i nostri nomi e le esistenze che si svolgono in un transito di noia, di attesa, cosa direbbero gli angeli di noi? Il romanzo è anche di amore, di desiderio, e di cose umili. L’uomo dell’aeroporto racconta alla Grande Dama la storia dei fumetti pornografici e se gli chiedessimo per quale motivo la frequenti, per quale motivo la cerchi, lui risponderebbe: quello che le chiedo è di aiutarmi a dimenticare me stesso per un attimo.
Il romanzo non mette in scena un narratore, ma una voce che conta gli attimi di solitudine: diremo agli angeli che il vero, autentico oro del mondo è la solitudine. E proprio in questa dimensione silenziosa troviamo il senso; il romanzo intorno alle piccole cose, ai piccoli oggetti: La mia vita modesta, i miei piccoli riti quotidiani. Cibo, legna, calore, letto, lettura, un poco di tv, come una ricerca di un posto in cui accomodarsi e attendere: quando poi rovescio il tutto nella carriola, attendo con piacere il rumore molle dell’impatto sul fondo, l’accomodarsi dell’insieme nei contorni che lo contengono, quel senso di pacato, inesorabile aggiustamento. Nel tempo libero l’uomo fa dei lavori nella sua casa, scava, leviga, per ricavare una stanza per gli ospiti da un grosso sgabuzzino mai usato. Il romanzo svuota l’io per trovare lo spazio in cui sistemare gli altri, ospiti che ci ricordino, amici che ci riconoscano, perché è questo: vogliamo essere amati, la nostra domanda d’amore chiede sempre d’essere riconosciuti. È questo che diremo, che l’inferno è essere scambiati per qualcun altro, essere assimilati a un gruppo: essere di qualcuno, essere cosa di qualcuno; eppure, delicato, l’uomo dell’aeroporto pare tenere in mano una delicata farfalla, e ne parla, ce ne racconta il malinconico esistere.
Non è un godimento mortifero che soffoca il desiderio, ma è quel vuoto celeste che permette transiti agli aerei, ai volatili. Fare i buchi per l’aria.
Nel romanzo c’è anche il corpo: Quindi, all’apice della fatica, io vivo, mi dico. Io vivo!, un corpo che non è scontato, un corpo-
mente che bisogna carezzare, e abitarlo: per fare una doccia, occorre un corpo. Bisogna procurarselo e spiegargli l’origine del tempo, la sua curva, corpo che suda, questo odore di un corpo, di questo corpo, questo sudore inconfondibile e puro, questa mia pelle, questo mio alito, questi miei piedi, che piange, l’intestino che miagola e geme, che muore, corpi nudi, erotici, attraversati dal linguaggio delle perversioni, delle ossessioni, delle ripetizioni meccaniche del sesso, innaturali e pornografiche, mentre giacinti e primule osservavano dal balcone. Nel romanzo, la natura umana osserva, osservata, i voli degli uccelli, di rondini, gruccioni e gru: Noi pensiamo siano animali di casa nostra. In Africa pensano lo stesso. Loro non pensano niente. La cornacchia, che suscitava la gelosia della moglie, addestrata: veniva a passeggio con me e Flick.
C’è una sottile tristezza che accomuna animali e esseri parlanti, inquietudini.
È questo un romanzo sull’andazzo anonimo, la vita di chiunque, il bocciolo che annuncia la primavera, magari eterna. Quasi senza una trama, se non quella esemplare di noi passeggeri: diremo agli angeli che abbiamo guardato le vite degli altri fino a rimanerne accecati, perché abbiamo scoperto il nucleo devastante della Cosa, l’inesprimibile. L’autore racconta di un perfetto sconosciuto, mantenendosi nel registro dell’immaginazione, non dell’immaginario. La storia delle storie: Non c’è svolta se non c’è una storia. E tanto è vero quando abbiamo bisogno di raccontarci attraverso gli altri, di amplificare un ascolto e di farci riconoscere. Credo di avere bisogno di una storia, dice l’uomo, e poi sono in strada, respiro. La mia voglia di storie si è placata. È ora di tornare a casa. Ma non per questo romanzo, edito da Einaudi nella collana Arcipelago nel 2018, perché alla fine vorremmo continuare a immaginare la vita di altri corpi, perché le storie sono una specie di preghiera, d’ipnosi, e agli angeli diremo che un romanzo del genere non lo avevamo mai letto, e che desideriamo ancora altre storie, un’altra vita ancora per raccontarcele e che una storia così non la senti tutti i giorni, una storia quotidiana nata dal nulla immenso che siamo.
Alcune domande sul romanzo
G.G.: Il suo romanzo è anche, e soprattutto, un romanzo che mette al centro il desiderio di raccontare la vita altrui, una metafora, mi pare, di quello che fa ogni scrittore: parlare di sé attraverso gli altri, le altre cose. Desiderare è anche desiderare di essere dove, in realtà, non si vorrebbe essere, adeguarsi alla propria solitudine, accorciare la distanza tra quello che siamo e ciò che vorremmo essere, impediti a confessare a noi stessi quello che si desidera veramente. Il passeggero, di cui conosciamo la probabile storia, è attratto dal mondo sconosciuto di un Asilo, e da una donna che lavora in fabbrica, probabilmente. E per quanto si risolva nel nulla, la storia che ci racconta l’uomo dell’aeroporto non finisce, non c’è un vero finale: il desiderio, e la possibilità di raccontare altre storie, permane, perché alla fine di tutto, è meglio desiderare: che rapporto hai con il desiderio e con la scrittura del desiderio?
F.S.: Il desiderio è un motore, un motore potentissimo. Tanto più potente, quanto meno raggiunge i propri obiettivi. Scrivere è, in un certo senso, ricreare continuamente, all’infinito, le condizioni dello sbocciare di un desiderio e dell’impossibilità stessa della sua realizzazione. Non riesco ad immaginare niente di meglio, per riempire una vita. Rappresenta una condizione di assoluto privilegio. E il doganiere è una sorta di metafora di quest’atto così gratuito eppure così essenzialmente vitale.
G.G.: Quella fatica è tutto ciò che abbiamo. Non raccontiamoci storie! Se c’è qualcosa a cui ci aggrappiamo è proprio questa pasta di «io»: eppure in questo romanzo l’io narrante, la voce, si perde nei racconti degli altri, dei fumetti, dei possibili mondi, dei multimondi che ci attraversano: come hai costruito questo romanzo riguardo la dislocazione delle varie storie, reali e immaginarie, che si incrociano, e delle domande che paiono un contrappunto all’intreccio della narrazione?
F.S.: La storia è nata inizialmente da alcuni spunti narrativi arrivatimi da conoscenti e legati alla vita all’estero di persone che erano state interessate professionalmente dal fenomeno della delocalizzazione. In realtà, questo ha rappresentato unicamente uno spunto, perché una volta individuato il doganiere come narratore, egli si è trasformato immediatamente da narratore di cose “realmente accadute” a “immaginatore” di storie possibili. Questo ha definito il vero spirito del libro: un tentativo di entrare lentamente nella mente di un uomo che ha in sostanza quasi smesso di vivere (se si fa eccezione per alcuni momenti legati a specifiche attività pratiche) e sostituisce la sua propria stessa vita con quelle immaginate delle persone che gli passano davanti nel suo lavoro. Una di queste attira in particolare la sua attenzione, e diviene a sua volta un osservatore/immaginatore. I due sguardi – quello del doganiere e del personaggio da lui osservato – sono marginali, stanno descrivendo una parabola calante, o addirittura si trovano già in una fase di distacco, di immobilità pensosa e piena di rimpianti. Il tono ideale per accostarsi ad un bilancio. Il bilancio di un’intera vita. Gli inserti sugli angeli rappresentano effettivamente una sorta di contrappunto alla narrazione: una legittimazione riflessiva della sospensione tutta immaginata che caratterizza le vite dei due personaggi – e quella di molti di noi.
G.G.: Diremo agli angeli che ogni tanto si arriva a una svolta. E che a ogni svolta, che lo vogliamo o meno, spunta sempre una storia. Non c’è svolta se non c’è una storia: mi pare una terapia della parola, è il linguaggio che rende tale il trauma e il racconto di sé agli altri è un modo, simbolico e anche reale, di rileggere il passato e il presente, è una possibilità che ci apre a altre soluzioni: che ruolo ha, secondo te, la scrittura nell’economia psichica degli individui?
F.S.: La scrittura può, come qualsiasi forma di narrazione, aiutare a fare pulizia, a mettere ordine. Quando ho raccontato qualcosa di me, che mi era accaduto realmente, vederlo fermato sulla pagina mi ha dato una sorta di sollievo, di quiete.
G.G.: La domanda è: come hanno fatto, gli uccelli di casa nostra, a imparare a migrare? La risposta è che non sono uccelli di casa nostra”: mi sembra che il suo romanzo sia anche una sottile metafora sui confini, sulle barriere, su chi siamo noi e su chi siano gli altri, gli sconosciuti di cui possiamo pregiudizialmente immaginare vite strambe senza conoscere nulla delle loro esistenze, oppure fantasticare malinconici pomeriggi, solitarie ambizioni di far parte del mondo, nostalgiche presenze fraterne che scaldano il cuore. Mi fa pensare che questo romanzo, oltre a parlare di scrittura e del fare storie, racconti un po’ la paura del diverso, dell’estraneo: che rapporto hai, e che relazione ha la sua scrittura, con i confini, con i limiti?
F.S.: La scrittura si nutre, da un lato, di confini. Tecnici, innanzitutto: pone a se stessa dei limiti per guadagnare il proprio equilibrio. Ogni testo definisce un “fuori” e un “dentro”, per arrivare alla propria intima essenza. D’altro canto, scrivere significa fondamentalmente immergersi in altri destini e rappresenta quindi una negazione essenziale del concetto stesso di confine. Gli altri non esistono per essere diversi da noi, ma per consentirci di conoscerli, entrandovi dentro. Naturalmente, tutto questo può avvenire unicamente al prezzo di una certa lentezza, mimetica e tastante.
G.G.: Il colore di questo romanzo è anche quello della libertà. Vivere alla macchia, becchettare sereni. Essere in uno spazio. Raccontare alla propria moglie dell’eleganza crudele di un ermellino, del lavorio tenace di una talpa. Ed essere ascoltati: l’uomo dell’aeroporto è affamato di storie, quella inventata dello sconosciuto viaggiatore, quella ‘reale’ dell’uomo ubriaco, è alla ricerca di storie da raccontare. Resta in attesa nel suo aeroporto, sguardo da entomologo, osserva, ascolta, e ama essere ascoltato. Scrivere è forse anche, soprattutto, ascoltare, e scartare un’infinità di immagini, di false aspettative, di ambizioni, desideri, orgogli, frustrazioni, e arrivare veramente al dunque. Non chiudo subito gli occhi, continuo a guardare. E vedo le macerie dal basso. Ne sento la storia. Non tutte le macerie sono uguali. Alcune sono più dense, torbide. Altre più leggere, polverose: tu, come scrittore, credi che quest’epoca, velocissima e superficiale, sia adatta ai ritmi dell’ascolto? Si può insegnare a vedere? A scrivere l’essenziale? Si può ancora insegnare a vivere?
F.S.: Non vorrei mai insegnare a nessuno come vivere. Al massimo, come detto sopra, rappresentare un esempio di mimesi, lentissima e rispettosa. Al lettore, la possibilità di servirsene o meno.
G.G.: Dove scrivevi, quando scrivevi, che facevi tra una pausa e l’altra? In quali luoghi è nato il romanzo? L’hai scritto interamente al pc oppure a mano? Durante la stesura del romanzo capitava di passeggiare in bici, in auto, a piedi e osservare alberi, scrutare edifici, finestre, affondare lo sguardo nel cielo, seguire le onde del suono e dell’acqua e trovare un’ispirazione? Fumavi o bevevi durante la stesura del tuo romanzo? Quanto pesavi? Scrivevi dopo cena, la mattina prima di pranzo, quando? Come definisci la scrittura di questo romanzo: di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo, della mente?
F.S.: Ho scritto questo romanzo come ho scritto tutti gli altri, e cioè vivendo del tutto normalmente, assediato, come siamo tutti, dalle mille incombenze del quotidiano. Ho lavorato soprattutto nelle prime ore del giorno, in cucina, al computer, sorseggiando il caffè. Forse questa scrittura aveva proprio bisogno del silenzio particolare del mattino, per svilupparsi al meglio. La spinta al procedere nella narrazione mi è arrivata quasi sempre da quella dimensione di raccoglimento. In questo testo si parla di una vita che sta conoscendo una fase di declino, una perdita di energia, e si sottolinea la prevalenza – nel protagonista, come in altre figure della storia – di una dimensione mentale. La vita pensata, immaginata, tende a prevalere su quella veramente vissuta. Come accade d’altronde a molti di noi – certamente a coloro che scrivono.
Ho impiegato circa tre anni a completare il testo – naturalmente, con lunghe fasi di interruzione, che ovviamente hanno contribuito, assieme a quelle di vero e proprio lavoro, ad arricchirlo, attraverso le occasioni della vita quotidiana. Sicuramente, per ricevere veramente degli spunti, c’è bisogno, a volte, di un certo silenzio interiore. Spesso ho avuto delle idee camminando, ma anche svolgendo lavori manuali, guidando, insomma esercitandomi in attività fondamentalmente meditative.
Se debbo proprio scegliere, tra quelle fornite, una definizione di questo romanzo, lo definirei un romanzo della mente e della stasi, vale a dire dello spazio che si crea proprio partendo da un’immobilità a lungo ricercata, perseguita, come una dimensione ideale di parola.
Per quanto riguarda il peso, infine, mi avvalgo della facoltà di non rispondere
Franco Stelzer, Cosa diremo agli angeli, Einaudi, 2018, pagg. 130