Alcune impressioni su Genesi 3.0, Neo edizioni, 2019, e alcune domande a Angelo Calvisi, l’autore.
G.G.: Il romanzo di Angelo Calvisi è suddiviso in quattro metamorfosi, o parti, ognuna ambientata in uno scenario diverso che muta, come un fondale di teatro, ai bordi della visione del lettore. Pare irrealtà e, invece, un profondo ascolto psichico e quotidiano serpeggia per tutto il romanzo. Ogni parte è in quattro capitoli, tranne la prima di tre capitoli, i cui titoli sono quasi sempre frammenti estrapolati dal capitolo stesso, una struttura frattalica. E frammenti sono, oggetti parziali, i corpi in azione. Il protagonista eccelle nella performance della masturbazione e nella sessualità zoofilica, sfiora l’incesto e disconosce, non per sua colpa, il nome del padre. Un simil edipo che scopre solo alla fine chi siano i propri genitori. Un viaggio di formazione, più che in un ambiente distopico, nel dispotico disporsi di una materia inconscia. Ha la semplicità complessa dei sogni, questo romanzo. Adotta una scrittura lineare e sperimenta una forma diversa di fronteggiare il tema della famiglia, della natura, delle leggi e del godimento. Il bosco si trasforma in città, la città cresce e il protagonista ne diventa, suo malgrado e con molte difficoltà, parte fondante. C’è un viaggio verso la conquista di un proprio posto nel mondo, di addomesticamento, quasi, di riappacificazione con gli altri. La storia si apre selvatica e gli alberi corrono ai bordi della carreggiata, sono alti e formano una muraglia che rinchiude complesse genìe di animali selvatici. Pare proprio che gli alberi, minacciosi a volte, a volte salvatori, evochino un presagio paterno, una presenza di padre che pensa morto il proprio figlio e che alla vita lo vuole far rinascere. Raccolgo ciuffi di Valderrama, l’arbusto con cui si fa un decotto che causa la morte apparente, mi stendo sotto la lingua qualche petalo di Ottalidono, il fiore che cancella l’emicrania e procura visioni ai creatori di moda, e arrivo piano piano allo stabilimento dove vive la famiglia: e c’è la sostanza che s’introduce nel corpo, che porta ristoro e godimento, salvezza e castrazione.
Mi sembra che in questo romanzo sia presente un sottile riferimento, per quanto fondamentale, alla famiglia, ai figli, al ruolo del padre e della madre: che ci puoi dire a proposito?
A.C.: Ti racconto questa roba qua. Ho lavorato molti anni per una cooperativa sociale che, periodicamente, offriva ai propri collaboratori la possibilità di formarsi attraverso corsi, supervisioni e incontri assortiti. In un’occasione, il relatore chiese ai partecipanti, che provenivano da realtà differenti e non solo dalla mia coop, quale visione avessero della famiglia. Per me fu imbarazzante, dopo che tutti i miei colleghi ne avevano dato definizioni celesti, oserei dire fiabesche, affermare tutto d’un fiato che secondo la mia esperienza professionale la famiglia è l’inferno, un luogo tremendo dove hanno luogo le peggiori nefandezze. La circostanza, ovviamente, mi ha fatto conquistare la palma dell’educatore più svitato del pianerottolo (qualche amico mi prende ancora in giro per l’episodio), ma qui voglio confermare con forza la mia provocazione. Nei casi fortunati la famiglia è il sanguinetiano nucleo di resistenza nei confronti di questa realtà di merda, ma sempre più spesso è, come disse Benedetto XVI (con ben altra accezione, è ovvio), il primo mattone della società, di questa società che umilia e uccide le donne, che toglie ai giovani la capacità di pensare (attraverso una scuola che ti giudica vomitandoti addosso test a crocette) e che, in generale, è il terreno ideale della prevaricazione, del pregiudizio, della disuguaglianza. E quindi, come puoi intuire dall’incazzosa verve che pongo in queste parole, alla tua domanda rispondo che hai proprio ragione. La famiglia, con la sua ipocrisia, è uno degli obiettivi principali del mio satiresco Genesi 3.0.
G.G.: Gli scenari cangianti da filmografia fantastica, presentano personaggi frammentati, non solo tratti psicologici, frammenti di statue, personaggi ciechi, amputati, paralitici, bloccati, castrati, patologici. Esplosioni, sogni, suoni, un suono vicino, abituale e tuttavia minaccioso, come se provenisse dai recessi delle mie paure più intense: perturbante: il quotidiano che pure ci pare strano, il familiare che appare minaccioso, tanti suoni, comunque, tanti corpi, corps morcelé, è un romanzo che ragiona, anche, in termini filosofici e andrebbe riletto oltre le righe. I simboli onirici: il serpente: la S, il gioco dei Significanti sulla maglietta che ogni volta muta e descrive le peculiarità caratteriali: S di svitato, di spassarsela, di sopravvivenza, e via di seguito. Magliette, maglie, maglioni, camicie con le S che paiono altrettante maschere e ruoli propri da Commedia dell’Arte, oppure il Sigillo, una lettera mutante e scarlatta, un espediente narrativo: quasi che il corpo stesso del personaggio tiri le fila della narrazione. La palindroma esse, S come sega, scopare: “Abbiamo sempre scopato molto” mi sussurrava la Madre, sognare, seno. Un sogno, questo racconto, denso di significato.
Hai pensato a questo romanzo solo in termini di scrittura o anche per sovrapposizioni d’immagini?
A.C.: Direi principalmente in forma di immagini. Io sono un regista mancato, in realtà. Non ho la vocazione al comando degli uomini, al controllo di situazioni al limite, sono un pigro ipercinetico e non sarei in grado di domare una troupe, però sapessi quanto mi piacerebbe girare un film. La mia mente ragiona per immagini sempre, in ogni ambito. Mi rendo conto che quando devo fare un discorso impegnativo, in classe, mentre spiego qualcosa ai miei ragazzi, o se parlo con gli amici, molto spesso chiudo gli occhi e cerco dentro di me delle immagini che mi aiutino a rendere più fluida e nitida la mia verbalizzazione. Con ciò non voglio dire che i miei testi siano pronti per una messa in scena, proprio per niente. Anzi, ritengo che il secondo step del mio lavoro sia quello più impegnativo, ovvero migrare dalle figurine e dai fondali che ho in testa a una lingua e a una struttura puramente letteraria che mi soddisfi e che, quindi, non sia una semplice descrizione. Spero che questa operazione di (come dire? Chiudo gli occhi…) tornitura si percepisca, perché il nucleo del mio fine come scrittoretto è proprio quello.
G.G.: Natura e soprannaturale si sovrappongono e si alimentano a vicenda, allo stesso modo favola e realtà si alternano in un mondo soggettivo che ricorda un certo immaginario alla Tim Burton, non si parla espressamente di politica e ideologie, ma se ne percepisce una sottotraccia nell’intreccio delle situazioni.
Chi sono i nemici del protagonista? «Chi sono gli Altri?»
A.C.: I nemici del protagonista sono ovunque, sono tutti quelli che incontra nel suo peregrinare senza scopo, e questo perché Simon non è in grado di capire chi sono davvero i persecutori da cui deve stare alla larga. Sanguineti (seconda volta che lo cito: si capisce quanto lo ami?) diceva che bisognerebbe ripristinare una sana lotta di classe. Non ho gli strumenti per accostarmi a un discorso del genere, ma mi sembra chiaro che siamo arrivati a un punto in cui gli sfruttati di tutto il mondo, che hanno smarrito la propria identità (anche di classe, beninteso), hanno ricominciato a limonare con i loro peggiori avversari: ovvero i razzisti, i privilegiati, quelli che si mettono il cinturone e pensano di essere nel Far West. Gli Altri che compaiono nel libro sono proprio coloro che non sanno più chi sono, e verso la fine, infatti, li ritroviamo sotto un balcone. E non aggiungo altro per non spoilerare.
G.G.: Che rapporto hai con la Natura? La città contrapposta al bosco è una metafora della civilizzazione e, se vuoi, della Legge opposta ai desideri dell’inconscio?
A.C.: Guardo la Natura da rispettosa distanza, ma senza sospetto o paura. Il fatto è che, essendo sempre stato un nerd, non sono fisicamente molto attrezzato per affrontarla come si deve. Insomma: non sono un grande avventuriero, non mi piacciono le cose estreme, non mi piacevano neppure da giovane, però credo di essere in grado di percepire la potenza, la maestà, la bellezza, il dominio della natura. E se indubbiamente la città è la metafora della civilizzazione (con tutto ciò che di negativo questo termine comporta), il mio amore e la mia attenzione nei confronti della Natura credo rispondano a un’esigenza di godimento estetico più che a una qualsiasi volontà di allegorizzazione di carattere psicanalitico.
Adesso un paio di domande sulla tua vita mentre scrivevi il romanzo:
G.G.: Dove scrivevi, quando scrivevi, cosa facevi tra una pausa dalla scrittura e l’altra?
A.C.: Scrivevo nel mio studio, dalle due del pomeriggio alle sette di sera, e nelle pause giocavo alla saga di Resident Evil, i vari remake approntati per il vecchio GameCube della Nintendo.
G.G.: In quali luoghi è nato il romanzo?
A.C.: In Germania, dove ho vissuto fino a un paio di anni fa. Abitavo in un paesino della Renania, Peppenhoven, a dieci chilometri da Bonn e a poco più di venti da Colonia. Mi sentivo molto solo e mi maceravo nella constatazione che anche in un Paese avanzato e apparentemente senza problemi come la Germania le persone stanno malissimo. Si comincia a bere il venerdì alle tre del pomeriggio e si finisce il lunedì mattina. La droga, segnatamente l’eroina, è tornata a essere un problema anche là, e i sottopassi delle stazioni ferroviarie sono piene di disperati che passano la notte avvoltolati in coperte impregnate di birra a basso costo e vomito. Che cazzo c’è che non va nella società? Credo che sia stato il tentativo di rispondere a questa domanda che mi ha dettato il libro.
G.G.: Hai scritto interamente al pc oppure anche a mano?
A.C.: Al pc. A mano, ogni tanto, scrivo orribili poesie. Molto di rado, se ho maturato il progetto di dedicarmi a qualcosa di corposo (mi accade ogni due o tre anni), mi porto dietro un quadernetto e appunto ciò che vedo per strada, le scene che mi sembra abbiano una valenza simbolico-allegorica e che in alcuni casi finiscono pari pari nelle mie narrazioni.
G.G.: Durante la stesura del romanzo capitava di passeggiare in bici, in auto, a piedi e osservare alberi, scrutare edifici, finestre, affondare lo sguardo nel cielo, seguire le onde del suono e dell’acqua e trovare un’ispirazione per il romanzo?
A.C.: Sono certamente catturato da quello che ascolto e vedo attorno a me. A Peppenhoven mi perdevo a guardare i cavalli, c’erano tante scuderie in quel cazzo di villaggio dimenticato da Dio e la mattina, a volte, venivo svegliato dai nitriti… Una cosa che mi commuove sono gli alberi, i veri dominatori di questo pianeta. Mi sorprendono i colori delle foglie, il suono del vento tra i rami… Cacchio, sta diventando una conversazione da libro Cuore. E allora ti dico che ciò che più di ogni altra cosa potrebbe tenermi incatenato su una panchina per ore e ore non sono i cantieri (ormai, come età ci siamo quasi), ma gli esseri umani. Una sezione del libro si chiama Paralitico. Be’, l’ispirazione mi è stata data dal fatto che nel centro di Bonn, dove seguivo un corso di lingua e sporadicamente lavoravo, non era possibile fare più di dieci passi senza imbattersi in una persona che transitasse in carrozzina. Mia moglie mi ha spiegato (sì, me lo ha proprio spiegato, perché io non ci arrivavo) che l’alto numero di persone con difficoltà di deambulazione che si vedono in giro da quelle parti è direttamente proporzionale alle buoni condizioni di marciapiedi e percorsi pedonali, ma ammetterai che sentirsi circondato, assediato dalle carrozzine è comunque una faccenda abbastanza inquietante.
G.G.: Fumavi o bevevi durante la stesura del suo romanzo?
A.C.: Non fumo e non sono un grande bevitore. Ero ubriaco di isolamento, quello sì.
G.G.: Quanto pesavi?
A.C.: Una novantina di chili di libidine e bontà.
G.G.: Scrivevi dopo cena, prima di pranzo, quando?
A.C.: Nel pomeriggio, già te lo dissi.
G.G.: Come si potrebbe definire la scrittura di questo romanzo: di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo, della mente?
A.C.: Di tutto quello che hai detto.