Se una delle streghe del Macbeth potesse parlare e raccontarci di sé si ritroverebbe nelle parole di Laura (Lolly) Willowes, la protagonista del primo romanzo di Sylvia Townsend Warner (Lolly Willowes, Adelphi, 2019, pp. 176, euro 11, nella traduzione di Grazia Gatti)?
Sembra difficile accostare la Londra del secondo decennio del Novecento- cioè l’epoca in cui è ambientata la vicenda della Townsend Warner- alla Scozia del XVI secolo- quella di Shakespeare, in cui si assistette a una recrudenza della caccia alle streghe, acuita dall’ascesa al trono di Giacomo I che le ebbe sempre in sospetto (fu coinvolto nel processo delle streghe di North Berwick) e che aveva scritto contro di loro un trattato (Daemonologie, 1597)-, tanto più a quella dell’XI secolo- ossia l’epoca del Macbeth realmente esistito.
Il contesto è dunque profondamente diverso ma sembra che Townsend Warner voglia indagare a fondo quella suggestione visto che, per raccontare la vicenda di Lolly Willowes e il suo avvicinamento al Demonio (l’amoroso cacciatore del sottotitolo), sente il bisogno di citare i versi del Macbeth shakespeariano.
Lolly Willowes è un romanzo che racconta la vicenda esistenziale di una donna totalmente disinteressata al matrimonio e che, pur di strapparsi al ruolo che la società le ritaglia, quello rassicurante e incolore di zia, si avvia per una strada che la conduce in seno alla stregoneria. Di tanto in tanto, nella monotona vita londinese si affaccia un mai rimosso turbamento che un giorno del 1921, a quarantasette anni suonati, le presenta una via di fuga irrinunciabile indicatale da un ortolano che le regala dei ramoscelli di faggio.
“Aveva chiara davanti gli occhi la via da imboccare. Reggendo i ramoscelli di faggio come se stesse marciando su Dunsinane, entrò in una libreria”.
Ecco il primo richiamo shakespeariano: Dunsinane, cioè il colle dove Macbeth se ne sta asseragliato nel suo castello ridendosela dell’esercito che avanza contro di lui perché troppo fiducioso nelle parole delle streghe che gli hanno predetto: “Macbeth non sarà vinto finché la grande foresta/ di Birnam su per l’alto colle di Dunsinane/ non muova contro di lui”. Ma quelle parole nascondono un tranello fatale. Sappiamo infatti che i soldati, per coprire i loro movimenti, si fanno scudo con i rami tagliati nella foresta. Gli equivoci del Demonio!
Lolly invece si dirige a Great Mop, un paesino sperduto delle Chiltern Hills, dove finalmente guadagna quella “stanza tutta per sé” che Virginia Woolf andava teorizzando e che in forma di saggio vide la luce nel 1929, anno in cui uscì il terzo romanzo della Townsend Warner, The true heart (pubblicato ora in Italia con il titolo Il cuore vero, Adelphi, 2019, pp. 222, euro 18). Nel 1922 Townsend Warner ebbe contatti con Stephen Tomlin, che confluì successivamente nel gruppo di Bloomsbury ma lei non ne fece mai parte. Grazie a Tomlin conobbe Theodore Powys di cui divenne grande amica e che le presentò la poetessa Valentine Ackland, sua compagna per quarant’anni. Townsend Warner contribuì a far pubblicare le opere di Powys, in primis La gamba sinistra (Adelphi, 2019, pp. 117, euro 12).
A Great Mop Lolly può dunque dedicarsi nuovamente ai boschi e a indagare quel mistero che la chiama e la insegue, come un cacciatore con la sua preda. E qui ritroviamo il secondo richiamo macbettiano. Lolly cita esplicitamente le parole delle streghe quando torna in paese dopo una passeggiata notturna sul Cubbey Ridge e dopo lo spavento provocatole dal bosco animato da “una cantilena magica”, rotta solo dallo sferragliare di un treno merci in avvicinamento che la fa sentire “esposta alla possibilità di un terrore travolgente” (cioè quello che “esprimeva qualcosa che da sempre gli uomini rifiutavano e condannavano, qualcosa che tramava nottetempo, nel buio dei crepacci sulle colline”). È in conseguenza di quello spavento che le vengono in mente i versi shakespeariani: «Tre volte ha miagolato il gatto tigrato; tre volte più una s’è lagnato il riccio. Grida l’arpia: “È ora, è ora”» (da atto IV, scena 1).
Ancora non fa incantesimi, Lolly- non li farò mai in realtà- si contenta della solitudine quale cifra della sua libertà ma, dopo che la sua pace viene infranta dall’arrivo del nipote, che tra parentesi si trasferisce a Great Mop per scrivere un libro su Füssli (“il pittore ufficiale del diavolo”, amava definirsi. Dipinse molte opere del Bardo per la Shakespeare Gallery, tra cui Lady Macbeth), furiosa per essere stata raggiunta anche lì dall’artiglio della famiglia, Lolly chiede aiuto al bosco con un grido disperato.
“La risposta non venne, eppure il silenzio che l’aveva seguito era stato così intenso, così consapevole: come un pegno. Se un qualche potere abitava quel luogo e l’aveva udita, se una sinistra potenza amica era stata evocata dal suo grido, allora sicuramente era stato stretto un patto, e quel pegno era irrevocabile”.
In poco tempo viene condotta al Sabba, ne fugge delusa e infine, sul far del giorno, chiacchiera con un guardiacaccia sotto la cui fattezze si cela il Diavolo in persona.
Sono pagine straordinarie, queste, in cui la Townsend Warner riesce a delineare, attraverso l’affilato dono dell’ironia, la condizione femminile dell’epoca. Gustosissime quelle in cui scopre in casa un gattino e immagina che sia l’emissario di Satana: un esile e buffissimo micio tutto pelle e ossa!
Ma non è solo l’affresco della condizione della donna agli albori del XX secolo a interessare la scrittrice. Fa di più dal momento che riesce a operare una vera e propria sovversione del punto di vista patriarcale, erodendolo dall’interno e sostituendolo con quello femminile. Non solo: sostituisce l’onnipresenza di Dio con quella satanica. Dopo la Grande Guerra la società sente che Dio è morto nelle trincee, così Townsend Warner si rivolge al Demonio, ma senza calcare la mano sugli elementi dionisiaci (non è il Sabba a cambiarle la vita).
Con una scrittura tutta contemplativa, che ha bisogno dello sguardo che spazia su quell’angolo appartato di mondo, la scrittrice delinea la sua protagonista e ce la consegna intatta, pur nell’isolamento e nella dissoluzione che il tocco del maligno comporta. Anche Satana richiede fede, Lolly dovrà essere la sua strega “alla cieca”, ben sapendo che il Demonio non fa favoritismi per nessuno. Ma a Lolly non importa purché possa vivere a contatto con la natura, “una cerva accoccolata nella tana del Diavolo, una strega affrancata dalla custodia del suo Signore”, nell’indifferenza del suo occhio eterno e troppo esteso per individuare qualcuno: “un’oscurità più fitta del suo sonno, una voce più profonda nel mormorio delle foglie sopra di lei: solo questo avrebbe conosciuto del suo sguardo che non desidera e che non giudica, di quel suo modo appagato, ma nel profondo indifferente, di essere padrone”. Se prima Satana era visto come un cacciatore, ora può essere meglio caratterizzato come guardiano.
Ritornando alla domanda iniziale: quelle streghe tutte intrugli e calderoni potrebbero riconoscersi nella storia di Lolly?
La risposta è no perché la domanda è mal posta, ovviamente. Le Fatali Sorelle shakespeariane sono il risultato di uno sguardo che non contempla l’abissale alterità dell’universo femminile. Possono agire soltanto tramite lo stereotipo che Shakespeare innerva in loro. È nella corporalità della rappresentazione che si svincolano da quel giogo, non sulla pagina. Il teatro di Shakespeare è fatto per essere recitato.
Townsend Warner, pur mostrandocelo, rifiuta l’elemento trascinante e ritmico del corpo invasato, della litania; non è quello a interessarle. La sua è una scelta, non di definizione, quale lo status di strega comunque comporta, al contrario, è la scelta della sottrazione. Townsend Warner usa l’elemento satanico per sciogliere in maniera radicale i vincoli sociali cui la protagonista è sottoposta. Non c’è neanche vera contrapposizione tra i generi, non si assiste a una lotta maschio/femmina in cui il femminile sia l’elemento sovversivo e tentatore. Non c’è legame o abboccamento amoroso che tenga e dunque neanche il patto carnale con il Diavolo. Il rifiuto è totale perché lo è il desiderio di immersione nella natura. “Anche da strega sembrava proprio che in società fosse destinata all’insuccesso: il primo Sabba non le avrebbe aperto prospettive più vivaci del suo primo ballo”.
La protagonista di Sylvia Townsend Warner resiste dunque pensosa ed estasiata anche mentre il suo corpo si diluisce e quasi scompare nell’indifferenza cui il mondo (reale e demoniaco) la costringe. Non ha nessun potere, né sugli altri né su di sé, ma raggiunge il premio, consapevole e ironico, della sua ritrovata libertà.