Niente è quello che sembra. L’unica cosa certa è che a cinquant’anni dalla morte dell’autrice, per Fazi Editori, nella collana “Le strade”, e nella traduzione di Stefano Tummolini, esce nelle librerie italiane Più donne che uomini (More women than men, 1933), della scrittrice inglese Ivy Compton-Burnett.
Siamo in un istituto femminile di una prospera cittadina inglese. È l’inizio dell’anno scolastico e la direttrice Josephine Napier – «cinquantaquattro anni, alta e austera, con qualche ciocca grigia tra i capelli ramati» – accoglie una dopo l’altra le insegnanti appena rientrate dalle vacanze: Theodora Luke, Maria Rossetti, Emmeline Munday, la signora Chattaway e la giovane Helen Keats, al suo primo incarico. Intanto, in un’altra casa, tre uomini, che finora sono venuti meno a molte delle responsabilità che la vita gli ha messo di fronte, conversano piacevolmente tra di loro. Si tratta di Felix Bacon, giovane ancora mantenuto dal padre; William Fane, avvocato del luogo, e Jonathan Swift, fratello di Josephine Napier, nonché padre di Gabriel, che egli, rimasto vedovo, ventitre anni prima aveva affidato alla sorella e al marito di lei, Simon. I tre uomini si stanno preparando per raggiungere l’istituto dove Felix Bacon vuole proporsi come insegnante di disegno.
Tutto sembra procedere in maniera molto composta in questo romanzo, attraverso uno stile narrativo fatto di dialoghi serratissimi e pregni di convenzioni. Eppure, senza accorgercene, in realtà siamo già nel nodo scorsoio della scrittura di Ivy Compton-Burnett, nella cui opera, come ci ricorda Giorgio Manganelli nel saggio La letteratura come menzogna: «la materia più torva è dissanguata e imprigionata in una struttura di rigida coerenza, e le passioni vengono esorcizzate dai segni cerimoniali di uno stile astratto e gelidamente ipnotico».
Insomma, anche in Più donne che uomini, quasi senza rendercene conto, e sempre che siamo dei buoni lettori, a un certo punto ci ritroveremo risucchiati nel gorgo e, se questo accadrà, non sarà soltanto perché comparirà in scena la classica donna “tornata dal passato”; non soltanto perché qualcuno cadrà – sciaguratamente? – da una scala, o perché due giovani si innamoreranno e si sposeranno in fretta e furia, e se ne andranno per poi però fare subito ritorno. No. Se accadrà, sarà soprattutto perché chi ha costruito questo meccanismo narrativo – questa gabbia dovuta al fatto che a essere una convenzione è il linguaggio stesso usato dalle persone, che nasconde e non rivela – è una scrittrice acuta e spietata, capace di combinare tragedia e commedia. Di parlare, ottantacinque anni fa, del ruolo della donna nella società, della necessità di costruire un rapporto paritario tra i sessi, del rapporto genitori figli, del ruolo dei genitori adottivi, dell’amore e delle sue responsabilità, del problema di trovarsi un lavoro e una propria indipendenza economica, dell’ambiguità sessuale. Anzi, non di parlarne, ma di “far parlare” direttamente i propri personaggi, quasi mettendosi in un angolo ad ascoltare le loro conversazioni ciniche e brillanti, zeppe di aforismi fulminanti. Il tutto all’interno di un istituto scolastico femminile – unità di luogo – in cui a restare fuori dalla scena sono proprio le alunne. Non un caso, certamente; e anzi, l’ennesima trovata geniale di Ivy Compton-Burnett, che in questo modo rende ancora più evidenti i paradossi di una comunità in cui coloro i quali hanno il ruolo di educatori e di insegnanti, sono in realtà marionette mosse dai fili della Convenzione. Perché poi – ecco il nodo scorsoio, ecco il cinismo della scrittrice inglese, la sua disillusione, il suo sconforto, la sua modernità, il suo grido di dolore che arriva fino a noi – tutto quel gran parlare di temi importanti non conta niente: è solo apparenza.
Gianluca Minotti