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Davide Sapienza. Il Geopoeta. Avventure nelle terre della percezione

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Un libro, come qualunque altra opera d’arte, dimostra la propria natura anche e soprattutto per quello che non dice, per le parole che non pronuncia, per le idee che non formula, per le scene che non rappresenta: in questo, le “avventure nelle terre della percezione” si configura come un testo-guida, un itinerario di ribellione, perché si ribella alle visioni preconfezionate, ai giudizi prestabiliti, ai margini predefiniti.

Sin dalle prime righe, incipit ed esordio hanno un effetto avviluppante sul lettore, il quale non riesce a sottrarsi all’abbraccio delle frasi e dei periodi che crescono gli uni dopo gli altri secondo l’arte della prosa che Davide Sapienza pratica (in questa forma non-fiction) da quasi due decenni: e anche se per le prime venti pagine veniamo immersi in una vera e propria opera al nero alchimistica con tutto il negativo che attornia l’individuo oggi, con la sottrazione della linea dell’orizzonte per tutti e per ciascuno, malgrado tutto la prosa del Geopoeta risulta sorprendente a ogni periodo. Credo che il segreto sia in una inimitabile caratteristica dell’uso delle parole, che per Sapienza non sono strumenti per esprimere il pensiero e dunque non vengono pensate, ma sono entità (idea più grafema più fonema) a cui si lascia la facoltà autonoma di venire, di esprimere, di condurre in piena indipendenza i paragrafi e la pagina. Così, al termine di ogni formulazione l’occhio del lettore si trova in un posto che non è esattamente né quello che si sarebbe aspettato né quello che la sintassi meramente denotativa avrebbe previsto.

Subito, facciamo conoscenza delle essenze alla cui presenza il Geopoeta è stato scritto: tra le prime, il nulla. «Dal nulla, tutto si crea» (pag. 24) è un assioma che viene ripetuto diverse volte, e che ci fa scoprire come il vertice delle nostre azioni consista nel fare dal nulla perché « l’immenso lavoro che il nulla si impegna a produrre coincide con la voglia di esistere nel qui e ora del territorio in cui scegliamo di definirci » (pag.25).

Le altre essenze dentro cui la scrittura vivente di Sapienza si crogiola da anni, e che in questo libro risaltano con una forza definitiva come in un trattato, sono, in ordine sparso ma ricorrente: lo scontro con il dualismo cartesiano, la constatazione del fallimento della posizione di Homo Sapiens al vertice della catena alimentare, la contestazione della modalità anaffettiva in cui si esprime il capitalismo spirituale; e, in positivo, tutta la gamma dei timbri con i quali l’autore dissemina i capitoli della propria esaltazione della geografia intesa come riconquista del proprio spazio personale, transitorio eppure guidato dall’intelligenza dei piedi e dallo sguardo alzato al cielo.

Un canale di comunicazione che gli permette di percepire questo messaggio dettatogli da un CAIRN e trascritto sotto dettatura automatica, durante una escursione sulla Cordillera Blanca in Perù a quasi 4000 metri di quota:

« Esisti prima di progettare ogni esplorazione, tu sei la meta, tu sei il solo segnavia di te stesso e del tuo cammino. Non devi stupirti di essere qui davanti a me. Hai superato te stesso, il punto del non ritorno era dentro di te. Qui, o altrove, non importa » (pag. 47)

L’autore scompare così dietro la sua opera. Qui, quello che conta è il destinatario; infatti, da capo a fondo il Geopoeta si investe di una missione pesante e disprezzata: vuole congiungere due discipline (geografia e poesia) tra le più maltrattate dalla didattica ufficiale italiana, vuole superare i complessi (per esempio, di quelle docenti che affermano “io non la insegno perché non la amo o non la so”), vuole sgretolare le incrostazioni (liberando il campo dall’uso prevalente delle “analisi del testo” o delle Prove INVALSI).

Una qualità impressionante del libro di Sapienza è la sua assoluta mancanza di narcisismo: la prassi che qui viene esposta è adhocratica, cioè invita ognuno a declinarsi in proprio la propria. Non è un canone da rispettare o un esempio da imitare, non è una dottrina da seguire: è una applicazione, una APP.

La novità assoluta apportata da questo libro in sede teorica, è pertanto il suo saper svolgere in una direzione evolutiva alcune intuizioni di Nietzsche sul “senso della Terra”: innovativa è la concezione della grammatica della Terra, tutta basata sull’invisibile, sulla percezione e sull’emozione (“penetrante, come l’odore del selvatico che si mescola a quello del mio corpo”).

[…] la scrittura della Terra sta utilizzando altri vocaboli e altri aggettivi, congiunzioni che collegano le frasi dentro le quali vengo pensato dalla montagna a quelle che ho letto laggiù, cento metri sotto di me. La rugiada, il muschio, le foglie, gli alberi, la roccia in apparenza insormontabile, sono gli elementi che raccontano la storia di come, su tracce che dall’alto sembrano inesistenti, creature camminanti hanno percorso vie in apparenza inimmaginabili. (pag.33)

Però non sarebbe novità assoluta se non fosse una invenzione legata a una profezia, e cioè che presto o tardi soggetto e oggetto, in una prospettiva non geometrica, tendono a fondersi e unirsi: lo attesta il Geopoeta che, appollaiato sulla roccia prospettante su un laghetto verde azzurro, ha «la sensazione di venire osservato» (pag.35). Sono dunque le cose della realtà a vedere gli uomini, accomunandoli a tutto ciò che di altro esiste nel comune campo morfogenetico.

Da un simile magma freddo-caldo, nascono i neologismi della prosa di Sapienza: il rewilding, le Postalpi, l’Ultratempo, l’Ognidove, la Valle dell’Occhio (che non è solo un posto ma un arcano), la luce artica di Nordland, l’autografo di Semper Loci.

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Essendo un’opera al cui fulcro sta la geografia, difficilmente troveremmo tracce della storia (è anzi la nemica la Storia, come evidenziato dall’affondo di pagina 85):

[…] laddove la storia può diventare artificio utile a ricordare e tramandare cose accadute diversamente da come vengono narrate, il libro della Terra non è manipolabile: parla una sola lingua e a noi sta impararne vocaboli, frasi, locuzioni.

Perciò c’è un fatto centrale, storico, contro cui tutto il lavoro del Geopoeta collide: la questione della violenza. Non della violenza nativa, che ha i tratti abissali dell’enigma cosmico, insolubile: ma la violenza dovuta all’antropizzazione, alla scelta individuale e collettiva, e che si distingue subito a occhio nudo perché è assurda. Su questa direttrice, il libro si ricollega direttamente a Camus e ad alcune rivelazioni trattate ne “L’uomo in rivolta”.

Poi c’è la questione del senso: il senso, in questo testo, detiene sempre la verità perché senza i sensi non ci sarebbe la percezione del vero. Forse è questo il significato degli incontri immateriali che il Geopoeta narra come resoconto attorno al suo sconvolgente incontro (capito a posteriori) nientemeno che con… il vento (pag. 74): incontri che avvengono di persona ma non necessariamente col corpo, con Barry Lopez, Alexander von Humboldt, Marc Gaspard Itard, Giovanni Segantini, Neil Young e infine col Jack London del racconto acustico e cosmogonico The Red One, guarda caso uscito postumo.

Infatti, per chi sia arrivato sino alle battute finali del trattato geopoetico, tutto si fa chiaro come una nube osservata controsole, come la contemplazione della Via Lattea in una notte serena, e tutta la materia che Sapienza srotola sulle sue pagine diventa una cronaca.

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Nella coscienza di chi lo legge, questo libro genera delle conseguenze: prima cosa, ripristina i nostri «radar capaci di intercettare il codice stellare dei nuovi linguaggi che diverranno strumenti per esprimere ciò che abbiamo bisogno di dire per evitare al flusso del nostro divenire di arrestarsi» (pag.27); questo impulso al rinnovamento è diretto, secondo me, soprattutto alla struttura della comunicazione e della scuola, alla quale Sapienza indirizza un sospiro di precisissima speranza (a pag. 82) dato che quest’ultima è gestita oggi da un corpo-insegnante che ha smarrito quasi del tutto il ricordo di essere stato adolescente e giovane, e ha a che fare ogni mattina con giovani e adolescenti.

Seconda cosa, i processi provocati dal contatto con la geopoesia sono sempre metabletici, cioè induttori di cambiamento e di trasformazione verso l’incognito indistinto (una definizione che è un calco dantesco formulato da Lorenzo Magalotti a fine Seicento) che la scrittura di Sapienza chiama in causa quando cita la «filigrana elementale: la natura effimera dei punti di partenza e delle mete che nella realtà non esistono» (pag.61).

Pertanto, ecco la configurazione di una nuova sagoma di uomo/donna adulto che sorge dal confronto faccia a faccia, come suggeriva Emma Jung, con Animus e, per gli individui maschili, con Anima (per Neil Young è Mr.Soul…): l’adultità secondo il Geopoeta è battaglia contro i Meanies (bella la traduzione italiana con “biechi blu”…) che però non ci ruba del tutto l’ingenuità, perché « noi non lo sapevamo, la cattiveria meschina non faceva parte del nostro bagaglio ridotto all’essenziale » (pag. 103).

Terza e ultima conseguenza, questo libro-manuale metabletico aggiunge un anello alla catena d’oro del progresso perché aiuta ad uscire, secondo quanto scrisse T.W.Adorno in Minima moralia (aforisma 186), dalla « umiliante alternativa di fronte alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi sudditi: diventare un adulto come tutti gli altri o restare un bambino »: il Geopoeta smantella questo dilemma con uno slogan pieno di echi: bisogna dimenticare i confini per vivere negli orizzonti.

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Gli effetti, non esagero, potrebbero essere risolutivi nel micro e nel macro: si vedrà.

Per conclusione possiamo provvisoriamente trascrivere un canto che il Geopoeta ha recuperato attraverso la terra del suono (a pag. 106): « la mia leggenda della creazione dice che un giorno ci siamo trovati tutti in un luogo, immersi nell’orizzonte, pronti a partire: chi con i Suoni, chi con i Colori, chi con le Parole ».

Andrea Sciffo

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Vedo il Nordland come il collo della clessidra rappresentata dalla particolare conformazione, data dai suoi confini orientali, della Norvegia. Una regione d’acqua e terre alte che mi ha ispirato l’idea dell’Ultratempo – anzi, me la ha proprio “estorta”, trovandomi in difficoltà a definire come si percepisce l’avventura in quelle latitudini aliene al nostro vivere nell’Europa meridionale.

Anche dopo ventidue anni di incursioni geopoetiche, il Nordland rimane per me una visione. Il luogo della mente dove riesco a sgretolare le misurazioni umane dello scorrere, la geografia che libera energie più grandi, potenza che ci avvolge e che proviene direttamente dall’universo sconfinato. Questo perché l’Ultratempo, sempre copioso, sa estrarre la sabbia che passa da un estremo all’altro di quella clessidra per darci la possibilità di scrivere sul territorio con la lingua della roccia, degli infiniti corsi d’acqua, degli alberi, degli insediamenti umani, delle tracce animali che chiariscono bene un concetto: sul Pianeta esiste un solo popolo nel quale nessuno è clandestino, la Comunità della Terra.

Foto di Claudio Carminati

Attraversando quella regione, navigando i fiordi, scivolando sulla neve, ho visto la magia della luce artica che mi ha immediatamente sospinto verso ciò che via via trovavo. Lì, molti anni fa, ho smesso di cercare, poiché ho compreso che vivere le percezioni e soprattutto accettarle, significava valicare concetti consolidati e in molti casi superati. Lì ho imparato che ogni cosa arriva mentre tu vai, proprio perché si esce dallo schema di una ricerca astrattamente determinata per entrare nella sconfinata distesa di un immaginario tutto da definire. E sempre nell’Artico, sotto quella luce, seduto sul granito freddo del Nordland in autunno, con il ghiaccio intorno, ammutolito dalla bellezza e dalla potenza quasi incontrollabile che i nostri sensi sono capaci di restituire, lo scrissi: «Prosegui sino a dove non conosci. Capirai allora perché sei vivo».

La prima volta che ho messo piede nel Nordland era un giorno di prima estate del 1997. Nelle settimane trascorse in solitudine tra Finnmark, Troms e quella stessa regione, avevo assorbito una tale quantità di connessioni territoriali da sentirmi in alcuni momenti sopraffatto. Più volte ero stato costretto a fermarmi, fisicamente, letteralmente, spossato da un’immensità irraggiungibile che al tempo stesso mi diceva di non temerla, di abbracciarla e lasciarmi abbracciare, perché in realtà ne facevo parte. La sostanza che da subito marchiò e compenetrò queste percezioni si chiama luce artica. Non a caso un elemento impalpabile, eppure custode delle chiavi di un “continente” a parte, la calotta oltre il Circolo Polare che copre a nord la Terra e la cui estensione geografica è ancora poco percepita nella sua enormità. Avevo appena letto e assimilato uno dei libri più belli sul rapporto tra uomo, geografia, cultura, Sogni Artici (Arctic Dreams, 1986) di Barry Lopez, lo scrittore che è stato e resta la mia guida attraverso decenni di ritrovamenti geopoetici. La sua scrittura trasversale, colta e avvincente, meditativa ma dinamica, ha rappresentato per me un passaggio decisivo.

Era spirituale, quel libro, era qui e ora, come lo Zen. Sogni Artici, che mi fu svelato dall’amico Renato Da Pozzo, divenne ai miei occhi l’incarnazione stessa della geografia di cui parlo in queste pagine: un libro-messaggero in grado di tradurre sentimenti e percezioni in un sistema espressivo consolidato e preciso, quello di Lopez, indirizzandomi verso il riconoscimento degli elementi costitutivi della mia poetica. Quel mondo, dunque, esisteva anche nella letteratura e in una lingua più agile e dinamica, l’inglese, che era per me un secondo idioma ed esprimeva anche meglio la mia relazione con la geografia, il viaggio e tutto ciò che vi era connesso. Dovevo credere sino in fondo a una geopoetica della scrittura praticata in un contesto più narrativo, alla ricerca di una verità in continuo divenire, capace di essere inclusiva: non a caso Lopez, prima di pubblicare il suo capolavoro, aveva dichiarato che «la forza della letteratura americana è il modo in cui affronta il rapporto tra territorio e presenza dell’uomo» (Western American Literature, Jim Aiton and Barry Lopez, University of Nebraska Press, Vol 21, N. 1, 1986).

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