«Che altro dobbiamo fare? chiedeva Danilo. E chi lo sa. Di sicuro piantarla, non scrivere sempre lo stesso libro come un idiota» .
Tabù, Giordano Tedoldi
Il contagio ha inizio. Esce domani, giovedì 11 aprile, per Chiarelettere, l’ultimo libro di Giordano Tedoldi, Necropolis: un viaggio al termine della Storia e della conoscenza umana. Un apologo politico. Un punto di non ritorno. Il tentativo estremo di riepilogare tutto per fare tabula rasa. Degli obblighi sociali, della possibilità di autodeterminarsi, della verità, di ciò che siamo o dovremmo essere in funzione degli altri. Se già I Segnalati e Tabù – i suoi romanzi precedenti – erano state oscure opere mondo che squarciavano i confini di ciò che in letteratura era stato fino allora sperimentato, con Necropolis questi confini sono abbattuti in maniera definitiva. Con l’implacabilità della poesia, potremmo dire.
«Non è solo per quello. Da qualche tempo, poco più di un mese, le mie Visioni Collettive sono diverse da quelle di ogni altro, al punto che non potrei più dirle propriamente collettive. Prima erano solo piccole fluttuazioni in dettagli marginali, poi è cambiato il contenuto, e così ho avuto accesso agli archivi dei sogni: nessun altro, nel campione molto grande che ho esaminato, sogna niente di simile a me. Nei miei sogni c’è una variante cruciale. Vedo qualcosa occupare di nuovo il posto del centro, una figura indecifrabile simile a una ruota, e poi, in ulteriori varianti ancora più recenti, si è aggiunta una voce che mi dice: “I morti ora sanno come riempire il centro”».
A parlare così è il Maresciallo Yarden, per il quale, in un mondo altro simile al nostro e gravido di responsabilità di tutti verso tutti, giunge ineluttabile il momento di dover rendere conto alla società dei vivi della propria scelta suprema: dove essere sepolto. «Perché la scelta sul dove lasciare il proprio corpo morto ricadeva sul valore di questa vita, non sulla speranza o la nessuna speranza di quella futura».
Due le possibilità: o nella Necropoli Ovest o nella Necropoli Est. Accompagnato dal nipote Rama, tredici anni e mezzo, dal segretario Pierre e dal negromante Max, il Maresciallo Yarden intraprende un viaggio nell’aldilà entrando nella Necropolis Ovest, dove sono sepolti coloro i quali vissero per la morte. Grazie al potere del negromante Max, il Maresciallo Yarden incontra e ha colloqui con tutta una serie di personaggi che sembrano convincere Yarden come la decisione migliore sia non decidere. Ecco allora Konrad Jung, asfissiatosi per amore a trentadue anni, e Père Alberic Mignard, il principe degli abusi sessuali su minori, ed ecco Abdus Wakil – forse il personaggio più straordinario evocato qui da Giordano Tedoldi. Poeta, filosofo, scienziato, musicista e acrobata del circo, Abdus Wakil scoprì «non ciò che sperava ma una tecnologia che gli consentì, per primo, di sconfinare tra i regni dei viventi. Come genetista e come cosmologo non produsse altro che allucinazioni, sosteneva che una teoria del sistema solare che includesse la Terra non poteva essere corretta». Abdus Wakil riposa in un lacero, rappezzato tendone da circo, dove il Maresciallo Yarden e i suoi accompagnatori assistono al suo ultimo spettacolo: una serie di esercizi acrobatici al trapezio-altalena. Prima di ascendere nella Necropoli Est, dove riposano coloro i quali sono morti per la vita degli altri, ancora nella Necropoli Ovest, Yarden incontrerà sé stesso a sedici anni, la semidonna Andrea e il Maggiore Kurtz, imitazione del colonnello Kurtz interpretato da Marlon Brando in Apocalypse Now.
Nonostante gli innumerevoli riferimenti – dalla discesa agli inferi come motivo topico della letteratura, a La terra desolata di Thomas S. Eliot (la cui prima parte, La sepoltura dei morti, inizia con i versi: «Aprile è il più crudele dei mesi». E di tutti i mesi dell’anno, Necropolis esce proprio ad aprile…). Dalle fughe di Bach fino alle nuove realtà rese possibili grazie agli sviluppi della scienza e della tecnologia, con la mutazione del mondo da analogico (Necropoli Ovest) a digitale (Necropoli Est) – la sensazione che si prova leggendo questo libro è quella di muoverci all’interno di un passaggio epocale in cui tutto è già contenuto e al contempo superato. Gli spazi attraversati, i budelli, gli edifici con le loro architetture, i labirinti, i deserti, il buio e la crudezza della Necropoli Ovest e la luce della Necropoli Est che svetta nel cielo come una stazione spaziale orbitante (ma attenzione a non confondere la Necropoli Est con il Paradiso così come siamo abituati a pensarlo), sono luoghi della mente, allucinazioni, campi di battaglia dove la Storia ha rinnovato sé stessa sterminando tutto ciò che era prima per riprendere il suo corso; e ancora, e ancora. Con un linguaggio asciutto e mai banale, preciso, che smussa le asperità dei pensieri esposti, Necropolis si fissa nella mente del lettore con una potenza dirompente. Verbale e visiva. È come se quell’osso scagliato in cielo dall’ominide nel film 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick, dopo essersi fatto astronave, ripiombasse sulla terra facendo precipitare la Storia in un dirupo di senso.
Gianluca Minotti
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Superata una cancellata di ferro dalle sbarre lanceolate e parcheggiata la macchina in un ampio piazzale ovale in terra bianca, Pierre apre la portiera al Maresciallo che scende mentre Rama smonta spalancando la sua con uno strappo ai cardini. A «tredici anni e mezzo quasi quattordici», come risponde a chi glielo chiede, non sa dosare il volume della musica che ha ascoltato negli auricolari per gran parte del viaggio così come la forza nei gesti più semplici: è spontaneamente votato all’eccesso, anche per questo Yarden l’ha voluto con sé. Di fronte alla loro macchina ce n’è un’altra, nera, parcheggiatasi lì proprio quando Pierre ha spento il motore. Si apre morbidamente la portiera e scende un individuo sull’uno e settanta di corporatura massiccia. Non indossa la tunica bianca della vecchia scuola ma il completo d’ordinanza della nuova corrente crematistica, nata dai broker della fine del XX secolo che evocavano i morti per divinare il futuro dei mercati: un abito grigio Armani, occhiali da sole Ray-Ban, scarpe Prada, cintura Burberry, tutto d’epoca. Emana una follia più intensa dell’entrata monumentale della Necropoli Ovest, detta anche Necropoli terrestre, evidentemente progettata da un demente. L’uomo si guarda i mocassini impolverati di bianco. Scuote lentamente la testa e una dopo l’altra anche le scarpe, che restano sporche. Si avvicina trascinandosi un trolley nero di medie dimensioni. I capelli ricci tagliati molto corti hanno ancora qualche riflesso del giovanile corallo.
«Buongiorno Maresciallo. Siamo arrivati insieme, buon segno» dice tendendo la mano a Yarden. «Sono Max, il negromante.»
Yarden gli stringe la mano e, trattenendosi dal mostrare impazienza per la fissazione dei negromanti di leggere segni e ausili divini in ogni coincidenza, gli presenta suo nipote. Vede anche la repulsione con cui Max stringe fugacemente la mano tesagli da Pierre e, in questo caso, Yarden non può fare a meno di domandargli se ci sia qualche problema.
«Suppongo che se l’ha portato ne avrà sentito il bisogno» risponde Max.
«Visto che lei ha un’inclinazione a rilevare segni, cosa pensa della Visione Collettiva?»
La Visione Collettiva è il sogno che da anni, almeno una volta a settimana, ma in molti casi già ogni notte, esplode nella mente di tutti gli abitanti del Campo Terzo.
Nella visione, il sognatore si vede al centro di un astratto rituale covato dallo spazio profondo, come un corpo celeste immobile attorniato da altri corpi celesti immobili, uno screenshot di un angolino di universo, ciascun corpo celeste ancorato al suo punto fisso nella mappa da precise coordinate. Mettiamo, tre coordinate. Una di queste coordinate deriva dal corpo celeste al centro, è questo corpo centrale che la genera e comunica agli altri. Improvvisamente il sognatore si accorge che la cifra è saltata: cancellata, sostituita non da uno zero o da un altro valore ma da una singolare e per certi versi sinistra indecisione o, meglio, non-nettezza. Ora questa nonnettezza del centro libera energie devastanti, che creano nel sognatore la forte angoscia di vivere in un mondo popolato di aggressori senza controllo né passibili di castigo. Il sognatore comprende che è il vuoto – che lui nel pensiero chiama «buco nero di tipo non-netto» – a creare attorno a sé quel vortice distruttivo. Il sognatore si sveglia e riferisce di aver sperimentato la perdita del centro, il collasso del corpo celeste generatore che forniva una delle tre coordinate per indicare un punto nello spazio, o un essere umano. Quasi sempre, nel risveglio, che sia uomo o donna o altro, il sognatore si sta tastando l’ano sudato e corre a lavarsi le mani in bagno come se avesse messo il dito in un acido corrosivo.
«Come tutti, sogno la Visione Collettiva, ma non so cosa significhi e penso che in fondo la domanda sia insolubile.»
«Lei pensa che sia insolubile perché non vede che ogni atto umano è una conseguenza causalmente necessaria di un precedente atto gratuito e non causale» ribatte Pierre.
«Non capisco cosa vuole dire e non credo di avere voglia di capirlo né ora né mai» dice Max, senza guardare Pierre.
«Credo che voi due dobbiate imparare a sopportarvi e perfino a andare d’accordo. Per favore, stringetevi la mano ancora una volta e non parliamo più della Visione Collettiva» interviene Yarden.
Obbediscono.
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