È tutto tra parentesi, un “a parte” o tra “a parte” che in qualche modo si integrano tentando di riempire i vuoti – della pagina, del senso. Non è UN tempo ad articolare queste parole, «non significano quel che significano
certe tue parole», dice Vincenzo Ostuni al figlio (in una forma grafica che qui non mi è possibile riprodurre) «ma solo, o persino, che nel mondo c’è, c’è stato, ci sarà – c’è a t con x, per ogni x –
questo significare, questo non significare
di qualcosa».
È tutto virgolettato, racchiuso tra parentesi e virgolette caporali.
(«Le stesse virgolette caporali sono già taglia compiuti, se le consideri nel momento d’avvio, così: «
– due fenditure attentamente vicine,
ciascuna doppia per la spezzatura;
quattro tagli sulla gola, che prima tracheotomizzando pronunciano, poi ancora parlando recidono
doppiamente l’arteria»).
Un pensiero che è monologo nel senso più alto, interrogazione e dubbio, con aperture di dialogo e frasi scomposte in segmenti. Da lì, affermazione e spiazzante nulla. («Quasi tutto quel che diciamo non significa niente»).
Epperò c’è una speranza infinita, («Non è per noi, ma c’è una speranza infinita»), quella incarnata dal figlio, dalle sue parole in olofrase, quel “Dumani!” che il poeta, il pensatore vuole interpretare e invece…
«Ma perdo il punto: dumani non è allora un giorno altro –
è questo stesso in questa stessa vita».
Qualcuno a me caro diceva che lo scrivere deve recare traccia evidente del pensiero che si produce. Quel qualcuno era laureato in filosofia e costeggiava la poesia. Vincenzo Ostuni è laureato in Psicologia, con una tesi sull’epistemologia della teoria psicoanalitica generale, e ha un dottorato in Filosofia. È poeta di un progetto articolato, il suo Faldone in continuo divenire (lo si può seguire su www.faldone.it). Dal Faldone zero-settantasei, novantasette-novantanove è estratto Il libro di G., oggi in libreria per i tipi de Il Saggiatore e in formato speciale (pp. 127, euro 22). È il formato del cinemascope, che Ostuni predilige. Visione larga, pensiero lungo, che poi si scompone, si frange, diventa frammento e nella frammentazione, come fossero passi, è visivamente corsa o rincorsa per aggredire altri flussi, nello specifico la riflessione infinita sulla paternità: il miracolo, la crisi, il legame insolubile (che non si scioglie e non si risolve).
(«Sei sempre dentro o in mezzo, sei tutto in medias res; sei tutto dentro, figlio, alle tue cose: alle partite a carte o a [pallone, ai nostri litigi
e ai tuoi o ai nostri giochi,
ai bagni contro le onde fredde e forti, ai pruriti, ai dolori;
persino dentro tutto alle tue assenze e distrazioni,
quando ti occorre un tempo impensabile per le addizioni, per le sottrazioni.
In te non c’è comunque mai (né ci sarà?) il mio cuneo del tempo, la mia zeppa di storia,
il mio guardare me che guarda e gioca, la mia paura dell’acqua troppo fredda,
la cinestesia pungente del mio sporgermi mentre ti penso e scrivo,
mentre ti abbraccio e rido o ti rimprovero:
il mio sentir me sempre come si sente un reuma»).
Se non è UN tempo ad articolare parole forse non è neanche UN luogo, come è successo a me conoscendo Vincenzo Ostuni, in istantanee di incontri per saluti fugaci: a Roma e Treviso, a Padova e poi Roma, a villa Torlonia, dove mi ha guidato tra gli specchi incisi del padre, che anni anni prima avrei voluto andare a trovare nella sua caverna a via degli Scipioni. E invece ho incontrato il figlio, io ancora ignara di tutto che cercavo con chi parlare e non sapevo cosa dire: la sua guida – parole e silenzi -; il mio Macbeth che ancora mi tormenta.
Al padre è riservata una intera sezione, in questo libro che intreccia le generazioni, ne cerca i segni, i passaggi, i vuoti e gli enigmi; una sezione intitolata “Verità locali 239” e dedicata al “sopra ogni cosa strabello”, “pseudopadre apicale, caimano / sciamano, marrano intercontinentale”, con cui discute di tempo e di colpa nel giorno del suo settantaduesimo compleanno.
(«”Ma noi apparteniamo all’eterno. Già da sempre, in effetti. Che cos’è del resto il tempo? Niente: il tempo è un [vago sentore
di colpa”), esordisce il padre. E lui, in un’altra parentesi, risponde:
(«Ma forse, papà, nessuno dei due; forse tu non consideri questo:
che il tempo sia invece la scoria innocente di una colpa profonda,
che l’abisso del male si trovi nel centro e non ai bordi dell’essere;
e che di quella vertigine giunga qui sopra
nient’altro che l’effluvio addolcito, l’aroma trascelto (sentore) di un volgare bottino,
banchetto, festino;
che tale centro doloso produca per sé come vento a un immane mulino
la ricorsiva perennità della gioia;
che il tempo sia la dépense profumata vivente dell’avidità eterna»).
Un padre che un giorno, prima di essere costretto tra farmaci e ticchettii dell’anulare contro l’anta della porta dell’ospedale Santo Spirito, gli dice:
(«Adesso capisco», mi hai detto una volta,
«che ogni parola, oltre al poco di sé, significa in più: “Io sono come te una vita umana”»).
Le altre sezioni sono dedicate al figlio, a G. – questo è il suo libro -, a “il bambino, il mistero”, che, dalla prima apparizione in ecografia in avanti, traccia gli anni dell’incontro e della lotta, dello stupore e dell’inadeguatezza, dello “sgomento fittissimo”:
(«[…] supponiamo allora che io abbia compreso benissimo
chi sei tu che vieni di notte, e chi sarò infine anch’io, che cos’era, o che è già, la mia carne
che abbracci»).
Ma, al di là di tutto, questo rimane:
(«Quel che ci siamo stati ci saremo, quello che non avremo è non averci,
quel che non siamo non dovrà più averci,
quello che sempre avremo
è esserci avuti»).