Scrivevo questo, riferendomi all’esordio narrativo di Leonardo Guzzo, prezioso collaboratore di Satisfiction, ispirata penna della pagine culturali de Il Mattino e appassionato traduttore di Seamus Heaney: “Un libro d’acqua, un mare di parole, ogni racconto un’onda e la sua carezza, una carezza che diventa storia, frammento e incantesimo. È questo che riesce a fare Leonardo Guzzo con il suo Le radici del mare, raccolta di racconti uscita nel 2015 per Italic Pequod: scrive formule incantatorie, si lascia possedere dalle malie di quel grande libro che è il mare e ci trascina nel suo vortice, nel risucchio dell’onda che contiene scaglie di vita sonore, parlanti, che si riversano sulla pagina”.
Guzzo conferma il suo talento e la fede nella forza della letteratura, consegnandoci questa nuova prova, Terre emerse (Pequod, 2019, pp. 122, euro 16), da oggi in libreria. Centoventidue pagine di incanto: è così che Andrea Tarabbia descrive la scrittura del nostro Leonardo, “autore nato maturo”, dice. E, parlando dell’evoluzione dell’autore, della potenza della lingua che in alcuni casi sa destrutturare la narrazione, continua: “Al mare subentra il “marasma”, specchio dei tempi fuori di sesto; dal marasma emergono tredici nuove storie cariche di simboli e di bellezza: spicchi di mondo interiore o scorci del mondo di tutti, come isole per passare il guado. Il risultato, atteso eppure inedito, è ancora, e più travolgente, l’incanto”.
Augurando a Leonardo un grande e meritato successo, pubblichiamo un estratto di uno dei racconti che compongono Terre emerse. Solo un assaggio per invitare alla lettura, come una tentazione o un peccato di gola da commettere abbandonandosi al sensuale piacere della trasgressione…
Rossella Pretto
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Candida degli abissi
Fu la prima a cadere.
Cadde in un modo strano, irreale. Prima che qualcuno potesse anche solo rendersi conto di quello che stava accadendo e prestare soccorso.
L’urto fece sobbalzare il barcone e la donna che stava ritta a prua svanì come un’ombra nera, giù nell’acqua nera e densa e adesso ringhiosa intorno allo scafo, ghermita da un messaggero dell’Ade.
La chiamavano “anossìa”. Nel giro di pochi minuti se ne stava – il battito del cuore alterato, fradici i polmoni – a fluttuare tra eruzioni di posidonia e chiome di salici abissali, nell’acqua che esprimeva, adesso, un’insolita freschezza sottomarina.
Tutto quello che ricordava era una ninna-nanna. Una nenia triste con le parole più dolci che avesse mai sentito. La cantava la donna più anziana del mondo, il viso da vecchia madre e le mani scorticate da non poter dare carezze.
“Vieni qua, Candida. Scenditene, anima bella… Perché non vuoi venire?”.
La voce chiamava e lei era scesa sparendo come una statua di santo abbattuta, una polena decapitata.
Dodici donne, indiavolate, guizzavano a bordo. La “zattera” – come chiamavano la tozza, sgraziata imbarcazione che le portava al lavoro – vacillava tra i flutti. Ogni giorno copriva una manciata di miglia tra il paese e cala grande, e anche quel giorno di aria ferma e nuvole basse, che fulmini venavano il cielo sopra l’orizzonte e il maltempo avanzava dal mare aperto. Aveva navigato sottocosta fino a un canale stretto, tra la punta e uno scoglio appena al largo, giusto all’imbocco della cala dove cresceva l’erba spartea e si svolgeva, preciso, il rito della “trasformazione”. Una congrega di streghe ne possedeva il segreto; ogni giorno lo impiegava lontano da occhi indiscreti, al ritmo di litanie esoteriche, in coda a un raduno che sapeva di sabba. Per dieci ore il mistero dilagava nel recinto di vite fin troppo trasparenti. Erano umili figlie di gente che adorava “la fatica” e alla fatica le aveva consacrate, anche se femmine: fatica da femmine ma pur sempre fatica. Si consumava in un luogo “occulto” e “separato”, cala grande: nel nome già inciso il paradosso di un’angustia dilatata, una prigione aperta, mescolata al cielo.
Fu lì che la tempesta le sorprese.
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… Il resto in libreria!