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Jens Peter Jacobsen, Marie Grubbe

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In anticipo di cinquant’anni su L’amante di lady Chatterley; in anticipo sulle anticonformistiche scelte di Caroline Fitzgerald (l’amica di Henry James); in anticipo sulle vicende della connazionale Karen Blixen, Jens Peter Jacobsen (1847-1885) ci ha consegnato – in anticipo su tutto e tutti, dicevamo – la storia di Marie Grubbe, nobildonna del diciassettesimo secolo storicamente esistita che passò dal matrimonio con il figliastro del re a quello con il suo fattore, in pagine che hanno il dono di far balzare fuori dalle righe qualsiasi pur minima notazione. Jacobsen si volge al lirico (una vocazione “sensitiva e umbratile”, disse Claudio Magris) quando descrive il paesaggio; è un fine osservatore dei moti dell’anima, dei suoi tremori, dei baratri come degli entusiasmi; sa descrivere con gusto particolare le crasse e sboccate scene dei popolani, passando da un registro all’altro con una felicità e un acume senza pari e uno stile impressionistico e personalissimo. Ibsen prese nota, Strindberg trasse ispirazione per la sua Signorina Julie, Freud rimase colpito, Rilke affascinato, così come Thomas Mann e tanti altri.
Jacobsen fu davvero un esponente di punta di quel movimento propugnato da Georg Brandes che va sotto il nome di “Det moderne gennembrud” (una sorta di varco o di sfondamento verso la modernità) che in Danimarca si proponeva di svecchiare polverose tradizioni e aprirsi a un respiro internazionale per seguire il flusso della vita, registrarla con occhio partecipe e acuto – non si dimentichi che lo scrittore coniugò la poesia con l’interesse scientifico (fu il primo traduttore danese di Darwin), attraversato da una vocazione profonda per entrambe: «Se potessi trasportare nel mondo della poesia le leggi eterne, le meraviglie, gli enigmi e i prodigi della natura, allora sento che la mia opera diventerebbe qualcosa di più che normale».
È quello che Jens Peter Jacobsen è riuscito a realizzare con questo romanzo del 1876 (Marie Grubbe, Carbonio editore, 2019, pp. 232, euro 16, accuratamente ritradotto e introdotto dallo studioso di letterature nordiche Bruno Berni) che è davvero un gioiello di rara bellezza, e splendida è la sua protagonista, così vivace e inquieta, delicata e patetica, tanto vera che sembra di avercela per casa, una confidente per cui provare ammirazione e pena, avvertendo il tintinnio di un’affinità elettiva che incanta. «Volevo che la vita mi prendesse con tanta forza da esserne piegata o elevata, cosicché nella mia anima non vi fosse spazio per pensare ad altro se non a ciò che mi elevava o a ciò che mi piegava. Volevo sciogliermi nelle mie pene o ardere nella mia gioia», confida Marie Grubbe a quello che diventerà uno dei suoi amanti, il cognato.
Uno slancio vitale e lacerante la spalanca, inseguita com’è dalle erinni di una colpa incomprensibile derivante dalla sensazione di aver fatto vibrare una corda funesta. Una lotta tra ombra e luce, ben descritta dalla caccia che il fuoco del caminetto dà alla tenebra in un rigido e ventoso inverno della seconda metà del Seicento: «Ma poi il bagliore delle fiamme tornava a correre sul tavolato e la tenebra del crepuscolo correva da ogni parte, il fulgore la inseguiva, su per le pareti e le porte, fin sopra il lucido chiavistello d’ottone, nessun luogo era sicuro. E il buio era lì, si arrampicava sui muri e sul soffitto come un gatto su un albero, il bagliore correva giù, avanti e indietro, saltando e correndo come il cane alla base dell’albero. Nemmeno tra bicchieri e boccali, in cima al tetto del cassettone, il buio poteva stare in pace, perché tutti i rossi bicchieri di rubino, i boccali azzurri, i calici verdi, accendevano colorati fuochi aiutando il bagliore a trovarlo. E all’esterno il vento continuava, l’oscurità aumentava, ma dentro il fuoco fiammeggiava, la luce danzava, Marie Grubbe cantava». Cantava e canta ancora oggi, accompagnata dalle ombre e dai dubbi che Jacobsen esplicitò nel suo secondo e ultimo romanzo, Niels Lyhne (ristampato nel 2017 da Iperborea): uno iato esistenziale, quello descritto, coniugato con un ateismo, non in posa da positivista, che il Novecento si è sobbarcato in pieno. Perché, come scrisse ancora Magris, Jacobsen è «il poeta dell’individuo tradizionale nel doloroso momento della sua trasformazione antropologica, del suo mutare e del suo perire».

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