“L’erotismo sembra essere una forma di conoscenza che nel momento stesso che scopre la realtà, la distrugge. In altri termini si può conoscere il reale per mezzo dell’erotismo; ma al prezzo della distruzione completa e irreparabile del reale medesimo. In questo senso l’esperienza erotica si apparenta a quella mistica: ambedue sono senza ritorni, i ponti sono bruciati, il mondo reale è perduto per sempre”.
Alberto Moravia, prefazione a Storia dell’occhio di Georges Bataille
Una vertiginosa capacità di penetrare in profondità una mente e i suoi più intimi meccanismi. In questo caso, la mente è quella del tredicenne Michele Maestri che, immerso nel caldo estivo, persona-occhio, si impegna a svolgere l’attività che maggiormente gli viene bene: guardare. Così spia con un binocolo che gli è stato regalato la colf di un notaio, che scandisce le sue giornate con sempre diversi incontri clandestini. Per poi precipitare nella punizione, dopo essere stato scoperto dalla donna, e assistere a qualcosa di inimmaginabile per lui, in grado di cambiare il corso della sua esistenza. Per Michele guardare è l’unica prospettiva, tutto è da vedere, e tutto aumenta in lui il desiderio di vedere ancora e di più. Anche la scelta del lavoro sarà condizionata da questa passione, o da questa “predisposizione”: farà l’occhialaio. Ma da quel momento, il suo sarà un confronto diretto con la “verità”, e l’inizio di un faticoso confronto. E lo scatenarsi e il crescere di un’ossessione, fino a un tragico epilogo. E proprio in questa esplorazione delle emozioni che abitano Michele Maestri, in questa capacità di captarne le pulsioni, le paure, i tormenti, sta la straordinaria maestria di Simone Innocenti, che sbalordisce mentre ci trascina – un passo dietro l’altro – negli inferi personali del protagonista, accompagnandone il progressivo scatenamento dei demoni un tempo tenuti a bada.
Tutto ciò prende forma e palpita grazie anche al magnifico uso che Innocenti fa della lingua utilizzata: spietatamente precisa, efficacemente sintetica ma allo stesso tempo potente. C’è qualcosa nella scrittura di questo romanzo che è in grado di attrarre e avvincere, come se la mente di chi legge possa in qualche modo essere “risucchiata” dalla mente di quell’artificio che si chiama protagonista. Il tutto – sempre – in maniera inattesa, attraverso piccole “sorprese”, cambiamenti di angolazione che ricordano il movimento in una struttura labirintica. Ogni piccolo accadimento, ogni osservazione aggiunge elementi indispensabili per la comprensione dell’intero impianto narrativo.
Simone Innocenti aveva pubblicato un testo di rara bellezza, Firenze Mare, cui l’etichetta di guida letteraria sta del tutto stretta. Con Vani d’ombra, pubblicato ora da Voland, siamo dinanzi a una prova letteraria piena e solida. Un invito “terribile” e con brivido a inoltrarsi nella mente di Michele Maestri. Ma anche, forse, uno straordinario esempio di confronto tra “realtà interna” e “realtà esterna”, l’elogio del dissidio tra ciò che ognuno di noi sente e pensa e ciò che “apparentemente” ci circonda.
Paolo Melissi
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Fu un binocolo che mi regalarono i miei genitori quando avevo tredici anni ad affinare la mia voglia di vedere. E con quel binocolo passavo ore e ore della mia vita a cercare bellezza. A spiare bellezza. A censire bellezza. Mi accucciavo lontano dalle case, non mi interessavano le stelle. Le stelle sono importanti, bravo che cerchi le stelle, mi diceva mia madre. Ancora però è troppo presto per il binocolo stellare, mi diceva mia madre, nata povera e vissuta da povera. Questo binocolo al momento ti basta, mi diceva. Era proprio quello, però, il binocolo che volevo. Non quello delle stelle, non quello del cielo. Coi miei funzionava così: dovevo desiderare un regalo diverso, più costoso, per avere l’oggetto a cui aspiravo. Dovevo far finta di volere il cannocchiale per le stelle in modo da avere un binocolo normale, potente, preciso. Imparai che dovevo inventarmi qualcosa per non dire a mia madre che quello strumento mi serviva a ghermire la gente dietro alle finestre mentre faceva l’amore, che col binocolo scoprivo come – nel primo pomeriggio afoso di agosto – Milena non era più la colf da pochi soldi al mese, ma la donna che si cambiava d’abito, si infilava i tacchi e indossava un pezzo di stoffa colorata – rosso fuoco, rosso che abbaglia – da usare fino a quando non arrivava qualcuno. Erano sempre uomini nuovi, e non capivo se fossero clienti oppure amanti. Non lo capivo, perché per capire – a volte – devi stare a una distanza ragionevole dalla cosa che vuoi capire. Io invece ero lontano abbastanza: ero a caccia di baci e li avevo trovati, per caso. Nell’arsura estiva di un piazzale zeppo di erbacce, avevo finalmente trovato quello che andavo cercando: il piacere, il volto distorto di due bocche che si baciano. Osservare lei, la domestica che di pomeriggio diventava un’altra persona, era un’esperienza tutta privata. Lei si trasformava, vedevo l’espressione cambiare, la faccia distendersi. La finestra della sua camera dava sul lato morto della villa, distante dal resto della strada, che confinava con le sequoie di un parco ed era protetto da buganvillee.Ma non dal mio occhio, e io vedevo la colf – la solita colf che la domenica mattina spingeva la carrozzella di Livio Gualtieri, il notaio figlio di notai, nella navata centrale della chiesa – diventare qualcosa di diverso. La vedevo per quello che era in camera sua e la confrontavo con l’altra, intenta a prendere la benedizione, io che in chiesa ero costretto ad andarci perché mia madre era una donna pia.