Mio caro G.,
siamo in odore di crudeltà, dici nella tua ultima lettera. E forse è così, perché quegli occhi che scrutano e impongono il loro dominio sono i nostri, che scrutiamo a fondo nel magma di questo libro: occhi che non si quietano, scavano e riportano tutto dalla pagina alla vita, tentando di darle esistenza ulteriore. Ma come sa Frankenstein è un’operazione pericolosa. Per chi: i personaggi, noi; la loro inquietudine, la nostra? Tu dici che il sogno si è in qualche modo dissolto perché il Leone di Napoli ha fatto colazione e, così facendo, ha posato la sua zampata sulla realtà. Io ti rispondo che però ha complicato ancor di più le cose. Cominciamo allora dalla fine, la fine del mio capitolo de L’uomo sentimentale: “È possibile che questa mattina sia stata soltanto un nome, Natalia Manur”.
Bene, ora siamo davvero nel regno del caos, dell’inconscio scatenato. Il Leone, prima di quest’ultima frase, ci spiega come abbia avuto la sensazione che tutto ciò che è accaduto, e che accade, sia frutto non di una sua azione deliberata, ma della spinta, dell’idea solo vagamente consapevole, “un mescolamento di intenzione e di involontarietà, come se all’intenzione fosse bastato affacciarsi, annunciarsi, mostrarsi allo stato embrionale o fare un breve atto di apparizione, perché i progetti o desideri appena accennati o insinuati da essa vedessero nascere alcune circostanze che li rendevano possibili (o che rendevano possibile la persistenza di quell’imminente intenzione) e che non si dovevano alla mia incipiente e mai ratificata volontà di compierli”, osserva il Leone.
E dunque: dov’è finito il desiderio di annientare Manur, il marito di Natalia, di prendere il suo posto, di operare la sostituzione? Sta sulla soglia. All the interim is like a phantasma, dice Shakespeare nel Giulio Cesare… “Tra il concepire un’impresa terribile e metterla in atto, tutto l’intervallo è come un incubo o un sogno odioso. Lo spirito immortale e le forze terrene sono in consiglio, e la condizione dell’uomo, come in un piccolo regno, subisce qualcosa di simile a un’insurrezione”. È così. Ogni cosa d’amore, oltre tutto, è come un phantasma. Un incubo, come in questa giusta traduzione; il nightmare di cui parla Marias in Domani nella battaglia pensa a me: ricordi la passeggiata all’altezza di Plaza de Oriente e l’apparizione dei due cavalli “così alti e immemorabili, un cavallo montato e una giumenta senza cavaliere nella notte”?
Tra il desiderio e l’atto sessuale cala un velo, si frappone una garza. E il reale diventa impossibile.
Lo è per il Leone che, per quanto si proponga di essere lucido, ci involve nella sua tela di ragno, da cui non so se uscirà mai; lo è in maniera diversa per noi che siamo di carne e di pensiero, in queste lettere, di fantasia. Perché io so chi sei tu, sei Gianluca; ti ho visto e incontrato anche pochi giorni fa, eppure sei anche G., e lui è sfuggente, mai completamente riducibile all’uomo con la camicia bianca e gli occhiali e il borsello dove tiene l’accendino che non lascia mai sul tavolo, a disposizione di chi ne ha magari un altro che non funziona. Vi è sempre un fondo di esitazione e tormento – in te, in me, nel Leone -, un’incapacità di collocarsi fuori e dentro il quadro e coglierne il midollo, istante per istante. Vedremo se è soltanto una mia idea o se Marias stesso sia carnefice e vittima, lui padrone delle trame da cui però non si divincola, se è vero che ogni sua opera non è che un eterno rincorrersi di temi, nomi, e situazioni rimodulati allo sfinimento. D’altro canto, e riprendendo il capitolo de L’uomo sentimentale, non è questa la condizione dell’interprete, in questo caso di Hörbiger, il tenore che si cala nei panni di Otello, nell’adattamento di Verdi, quell’odioso cantante, maniaco, ossessivo e spinto da ansie di originalità a tutti i costi che il Leone deve sopportare e su cui riflette a quattro anni dal giorno del debutto, al teatro della Zarzuela, quando il telefono della sua camera non smette di suonare, rincorso com’è, il Leone, dai giornalisti per i quali rappresenta l’essenza dell’artista promettente, la novità che suscita apprensione e che attira più di ciò che dà conferma? Non è così che succede a chi calca il palcoscenico, non è così che capita a The Birdman, nel capolavoro di quel genio di Iñárritu, che ho rivisto pochi minuti prima di iniziare a scriverti? Di non saper districare la sua angoscia, la dissociazione simboleggiata dalla voce e poi dal corpo dell’uomo-uccello che gli ha dato la notorietà nei panni di un supereroe, di cui però lui vuole liberarsi per stare finalmente sul palcoscenico che, da ragazzo, ha timidamente calcato, con gli occhi di Raymond Carver su di sé? Di non riuscire a capire dove e come collocarla, quella sua doppia personalità, come agirla, per ricevere quel riconoscimento cui ambisce, capace di colmare (forse, ma probabilmente no) un vuoto che sente appena oltre il velo? “Confondi l’amore con l’ammirazione”, gli dice l’ex moglie. Alcuni di noi lo fanno. Alcuni di noi vogliono essere amati ad ogni costo, un amore che non basta mai. Non è così che succede anche al tenore Hörbiger? Certo, altrimenti perché Marias darebbe tanto spazio al suo bisogno ossessivo, il need vorace dell’attore, di veder occupata ogni singola poltrona della platea, costringendo gli impresari a riempire il teatro con figuranti e loschi figuri; un need che lo conduce alla pazzia dell’ultima apparizione quando, spiando da dietro il sipario – “un occhio veloce e iniettato di sangue che coincideva ogni pochi secondi con lo spiraglio” –, scorge un’unica poltrona vuota e “vestito com’era da Otello, con la faccia dipinta di nero, la parrucca voluminosa e arricciata, gli occhi e le labbra ingranditi dal trucco, l’orecchino all’orecchio e il cannocchiale in mano, il grandioso Hörbiger uscì in scena, scese in platea, l’attraversò a passo deciso tra lo stupore degli spettatori ormai furenti, e si sedette in quell’unica poltrona accusatrice, completando in questo modo il pubblico che era stato la sua perdizione, [… e] trasformandosi nel più impaziente, assoluto e sofferto spettatore di se stesso”?
È che siamo fragili, estremamente fragili, bucati, e pensiamo di poter e dover contare qualcosa su questo palcoscenico. Ma la vita non è che un’ombra che cammina, declama un povero attore pieno di sound and fury in cerca di un’occasione, fuori dal teatro, per dimostrare le sue doti attoriali; e lo urla come un ossesso mentre The Birdman, dopo aver insultato la critica che il giorno dopo stroncherà il suo spettacolo, si ubriaca in una New York notturna, onirica e infestata dalla lampadine colorate ed eccessive che insidiano il buio delle anime sole.
Non se ne esce, Gianluca; non è mai veramente possibile.
Ti ho assillato di domande, punti interrogativi infiniti, incalzanti. “Perciò forse questa storia o passato o frammento di vita mi sembra più verosimile dopo che ha cessato di essere soltanto realtà ed è anche un sogno, a partire da oggi”. È questo che scrive il Leone.
Tu mi aspetterai oltre la sosta di questa estate disturbata e frenetica, di questa convulsione di risate e lacrime che si alternano e si accavallano come doni insperati e crudeli? Eh sì, perché la tua risposta, lo so già, arriverà a settembre e nel frattempo qualcosa succederà… e forse scopriremo di contare qualcosa anche noi, lo scopriremo nell’intimo, e allora, finalmente, spiccheremo il volo come The Birdman. Io ti aspetterò oltre il guado…
Tua, R.