Le terribili immagini della cattedrale di Notre-Dame in fiamme sembrano riaprire lo squarcio del contemporaneo, scostando il drappo dell’ordine quotidiano per rivelare il caos che attende di tornare a scatenarsi sul reale.
Come non pensare subito alle Torri Gemelle, nella diretta televisiva che tutti ricordiamo, in quell’irruzione del caos che ha rappresentato la più grande frattura dell’epoca contemporanea? Quell’irruzione che Annie Ernaux nelle pagine di Gli anni pone in relazione con la tensione della memoria personale e collettiva, inserendo l’interrogativo “Cosa stavi facendo l’11 settembre 2001?” tra le “migliaia di parole che sono servite a nominare le cose, i volti delle persone, le azioni e i sentimenti, che hanno dato un ordine al mondo”.
Di fronte ad un’irruzione tanto violenta del reale, le parole annaspano, si increspano nell’afasia della distruzione. Laddove esisteva la possibilità del mettere ordine attraverso il linguaggio rimane il cratere del senso, svuotato come in questi giorni da un banale incidente tecnico o, tornando al 2001, dall’ideologia fatta carne. La scrittura delle rovine si inserisce nel balbettio disorientato dello sguardo umano di fronte alla distruzione, che è allo stesso tempo rimozione della storia, della memoria e della parola. Come nelle pagine di Hiroshima Mon Amour di Marguerite Duras, il timore della perdita dei ricordi è rassicurato solo dall’evidenza delle macerie: “Hiroshima è il tuo nome”.
Pubblicato per la prima volta in Francia nel 1942 da Denoel e apparso in Italia nella collana Urania nel 1957 con la copertina disegnata da Caesar che taglia in due la Tour Eiffel, “Diluvio di Fuoco” (in francese Ravage, devastazione) ha portato al successo René Barjavel, tra i più apprezzati autori di fantascienza d’oltralpe, autore di acclamati romanzi come “Il viaggiatore imprudente” (Le Voyageur imprudent, 1943) e “La notte dei tempi (“La Nuit des temps, 1968). Romanzo delle rovine diventato un grande successo di mercato, Ravage è ambientato nella Parigi del 2052, dove la tecnologia ha preso il sopravvento sulla città e sullo stile di vita dei suoi abitanti, in un’esasperazione (premonitrice) della società totalitaria che sarà pochi anni dopo tratteggiata nelle pagine di autori come George Orwell e Ray Bradbury. Il plastec, materiale dalle straordinarie caratteristiche tecniche, domina l’urbanistica di una Parigi quasi irriconoscibile, dominata dalle quattro Ville Hautes costruite da tal architetto Le Cornemusier (qui Barjavel è tagliente) che possono permettersi, come orpello decorativo, di esporre il Sacrè-Coeur “colto come un fiore, delicatamente e rispettosamente” ed esibito “tutto intero in un angoletto della terrazza del grattacielo”. Un gingillo nostalgico “situato sull’orlo dell’abisso”.
Ma la stabilità di questa nouvelle Paris è improvvisamente minacciata da un misterioso guasto elettrico, che la fa piombare nell’oscurità. I grattacieli sono invasi dalla notte, le comunicazioni si interrompono, gli approvvigionamenti alimentari si arrestano. E’ il caos, con tutta la sua carica di violenza. La scrittura della distruzione di Barjavel germoglia come un fiore cattivo nel secondo capitolo, dal titolo emblematico “La caduta delle città”; la routine del reale crolla lentamente, e con essa l’immagine di una città intera. “Parigi era scomparsa” e con essa la realtà quotidiana, “lasciando il posto all’assurdo”. Un ritorno al caos nel quale nessuno può sentirsi al sicuro: “La legge della giungla sarebbe divenuta l’unica legge della Cité”, in un gioco di specchi che sembra essere premonitore della violenza di strada dei gilet gialli di questi mesi.
Ma la narrazione di Barjavel arriva sorprendentemente a coincidere con le immagini di Notre-Dame in fiamme quando, per una banale casualità, scoppia un incendio. Il “diluvio di fuoco” si abbatte su Parigi, colpendone i simboli secolari, l’identità che il mondo le riconosce, deformata in un’incandescente colata. Place de la Concorde “si trasformò in un braciere di mille auto”, “ruscelli di fuoco precipitavano nei tombini”, “le vampe ruggenti s’insinuarono nei corridoi, fecero saltare le travature, salirono di colpo fino alle tegole, esplosero trionfali attraverso i tetti, e balzarono sopra le case vicine, che le accolsero crepitando”. Nelle fitte descrizioni di Barjavel sembrano scorrere endemiche, in un cortocircuito temporale, le odierne immagini della guglia di Notre-Dame che si disintegra sotto gli occhi del mondo intero. Proprio come nel romanzo, nel quale “non c’era un parigino, fosse pure un barbone, che non si sentisse stringere il cuore nel vedere bruciare la città e i suoi tesori”.
Visione colma di terrore, il rogo di Parigi è allo stesso tempo portatore di fascinazione. Qui lo sguardo, così come la scrittura della distruzione, diventa l’angelo sterminatore della bellezza, e di ogni ordine del mondo. I parigini di Barjavel, rintanati come topi contro i boulevard negli ultimi istanti di vita, non possono smettere di guardare, nell’impossibilità di chiudere gli occhi, “poiché non si poteva far altro che guardare, tutti stavano lì a riempirsi gli occhi”. Al centro di feroci attacchi del pubblico degli Anni Quaranta e Cinquanta, Ravage è anzitutto un libro di genere che va oltre al lutto del rogo di Notre-Dame, facendo coincidere la fine della Parigi del 2052 con la battuta finale di un’epoca oscura e oppressiva, auspicandosi una rinascita dell’epoca moderna; attraverso l’iperbole fantascientifica, il fuoco diventa allora purificazione e estasi, le fiamme sono il rito di passaggio verso la libertà, se è vero che dopo ogni distruzione nasce l’intuizione di una ricostruzione possibile. Come nelle pagine di Il Padiglione d’Oro di Yukio Mishima, capolavoro pubblicato nel 1956, l’immagine della distruzione della bellezza si spoglia del terrore per abbracciare una nuova purezza. Il giovane Mizoguchi, balbuziente e zoppo, vive nel culto del Padiglione e del suo fascino millenario; un culto talmente pressante da adombrarlo, da pressarlo e soffocarlo. L’unico varco possibile per tornare alla vita sarà incendiarlo, per tornare a costruire il senso delle parole sulle macerie del mondo: “Volevo vivere” si dice il protagonista, mentre aspira il fumo da una sigaretta, di fronte alle rovine del Tempio e della memoria.
Al termine della riscoperta di Ravage, la prosa premonitrice di Barjavel racconta, ai margini del romanzo di genere, più di quanto non saremmo stati disposti a leggere. Specialmente, lo fa mentre le torri della cattedrale francese continuano a fumare, mentre si raccolgono fondi per una ricostruzione lontana e tutta ipotetica, mentre è in corso la caccia al colpevole; errore umano o piano diabolico, il rogo che ha colpito il cuore di Parigi parla alla nostra civiltà e all’amplesso che ci lega al mondo della produzione delle immagini, e dunque alla loro distruzione. Al culmine dell’orrore, l’occhio non sa proteggersi e continua a registrare. Così come la mano non può arrestarsi dal verbalizzare la grammatica della caduta mentre il fuoco divampa e, come nella pagina centrale del romanzo che oggi fa quasi sussultare, gruppi di invasati gridano alla fine del mondo suonando il secolare campanone di Notre-Dame.
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Stefano Malosso è giornalista e scrittore. Si occupa delle pagine culturali del quotidiano Bresciaoggi, è redattore del mensile Graffiti, e ha collaborato con riviste, quotidiani e blog come Linus, Satisfiction, Il Giornale di Bergamo, Music Wall, Siti. Inoltre, collabora a Milano con la casa editrice La nave di Teseo – fondata nel 2015 da Umberto Eco e diretta da Elisabetta Sgarbi. Tra i suoi lavori e collaborazioni come videomaker ci sono la regia del documentario La guerra scampata(co-prodotto da Fondazione Comunità Bresciana, 2018), Babylon Resort (finalista Premio Treccani, 2016), la collaborazione al documentario Six feet up (Premio della Giuria al Festival Visioni Italiane, Cineteca di Bologna) e l’esperienza come assistente per i documentari L’ultima Salita. Beniamino Simoni a Cerveno eLa lingua dei Furfanti. Romanino in Valle Camonica di Elisabetta Sgarbi (produzione Rai Cinema). Inoltre, dal 2012 collabora con il festival La Milanesiana di Milano ed è direttore artistico del festival letterario OltreConfine di Brescia.