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Seamus Heaney, Traversare l'inverno

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Come un romanzo d’avventura, Wintering out – la terza, fondamentale raccolta poetica di Seamus Heaney – necessita di un prologo. “All’inizio degli anni Settanta, all’improvviso, spuntano (o riemergono) in Irlanda steccati spinosi e feroci. Nel nord rimasto britannico, screziato prima e ora dilaniato dalla convivenza tra cattolici e protestanti, separatisti e unionisti, si spara e si uccide, si incarcera come in una terra di nessuno, si corre a piantare bandiere in nome di questo o quello — la fede, il diritto, la storia — si apre l’uscio al peggio dello ‘spirito nazionale’ e si lascia che il peggio scorrazzi e incattivisca.[…] Seamus Heaney ha poco più di trent’anni, moglie e due figli, è il poeta del successo clamoroso di Death of a Naturalist e ha scritto Door into the Dark, è lecturer alla Queen’s University di Belfast e reduce da un anno sabbatico trascorso alla Berkeley University in California. Nordirlandese cattolico, ha appena lasciato la capitale e l’università per trasferirsi a Wicklow, nella campagna a sud di Dublino, in Éire. Da qualche anno avverte un’oppressione e un’esigenza: l’ha ruminata, squadrata con più esattezza, profilata nella lontananza del West. Alla fine trova le parole, i versi illuminanti e quasi espiatori, che mancavano nell’apnea dei Troubles; scosta il nevischio di una tormenta disumana e scopre tizzoni ardenti, calore; districa forse una via di sopravvivenza, di ‘resistenza umana’, il tratturo di un possibile Wintering Out.”

In questo “milieu”del tutto eccezionale si snoda il percorso poetico di una raccolta destinata a segnare profondamente la vita del poeta irlandese, premio Nobel nel 1995, e il panorama letterario internazionale. Un percorso che oggi, colmando un vuoto anche troppo duraturo, è riprodotto in italiano da Traversare l’inverno, la squisita versione realizzata da Marco Sonzogni e pubblicata da Gabriele Capelli Editore. Se la prefazione di Leonardo Guzzo disegna le coordinate entro cui si svolge “l’avventura” della silloge, Alberto Fraccacreta, nella postfazione, ne definisce l’obiettivo a partire dal titolo: “Non semplicemente svernare, ma uscire fuori dall’inverno dopo esserci passati, come l’incessante moto di un fiume dentro il cuore della selva. In quel gorgoglio limaccioso si percepisce la difformità, il sentirsi rigenerati e tuttavia coscienti delle sottrazioni, delle perdite anche solo emotive nel lungo passaggio che spinge comunque il poeta ad abbracciare ancora il proprio ‘piccolo destino’, com’è detto nella lirica incipitaria”.

In mezzo al guado c’è un Heaney che esplora varie direttrici della sua poesia. Il “racconto” del paesaggio irlandese, innanzitutto: la sua autentica “evocazione” – come in Biada, Quercia di torbiera, Terra, Doni della pioggia – accompagnata dal canto dell’uomo che si salda alla campagna (“si fa cerchio col luogo in cui ha seminato/ e cielo e terra/ corrono naturalmente tra le sue braccia/ che palpeggiano terra ubertosa” ), l’epopea dell’arcade nordico che è il poeta stesso, vittima felice di una magia che lo prende in trappola (“con un anello/ di fil di ferro tagliente che mi dondola all’orecchio”). Di questa sezione fanno parte alcuni componimenti – “onomatopeici”, si potrebbero definire – in cui il corteggiamento della lingua di Heaney alla materia diventa, grazie alle suggestioni del gaelico, un’immedesimazione completa. Si pensi a Toome, a Broagh, Una canzone nuova (“Ho incontrato una ragazza di Derrygarve/ e il nome, muschioso e perduto portento,/ richiamava del fiume le lunghe curve”) e la celebre Anahorish, “soffice gradiente/ di consonanti, prato di vocali,/ spettro insistente di lanterne/ dondolate nei cortili/ nelle sere d’inverno”.

Dentro al paesaggio si muovono personaggi vividissimi, forti e dolenti, sempre suggestivi e simbolici. È il caso del Ragazzo servo, che denuncia la triste realtà della discriminazione sociale nell’Irlanda rurale; del rigido osservante de L’altra parte (“Il suo cervello era una cucina imbiancata/ infarcita di testi, lustra/ come il corpo della sua chiesa”); dell’Oracolo, il genio che abita il tronco cavo di un salice, “lobo e laringe/ dei luoghi muschiosi”, e rimanda ai meandri di un’Irlanda misteriosa e magica. Memorabili sono le figure femminili: la moglie oppressa di un pescatore de La donna della spiaggia, che trova il suo scampolo di libertà in una passeggiata serale sulla battigia, “membrana tra il chiaro di luna e la mia ombra”; la sedotta e abbandonata di Maighdean Mara; la madre di Limbo, costretta ad annegare il “figlio della colpa” in fasce (“Lui era un pesciolino con ami/ che le squarciavano il ventre”), straziata da usi atavici che le impongono la vita dall’esterno, archetipo di una donna “eroica” che torna a più riprese nella produzione di Heaney fino alla Didone di Eneide Libro VI. Su tutti, però, spicca probabilmente L’ultimo mimo, figura romantica – una specie di Charlot campagnolo – che fa il suo spettacolo di ombre evocando in un’amorevole miscellanea San Giorgio, Belzebù e Jack Straw, che trova “una via amichevole/ tra gli antichi affanni del sangue/ e delle faide” e districa “un primo rugiadoso sentiero/ nel pascolo estivo”, oltre l’inverno.

La simbologia politica è evidente, e diventa ancora più marcata in poesie come L’uomo di Tollund – che trasfigura i patimenti del popolo irlandese nella tragica visione dei ribelli alle “parrocchie assassine” dello Jutland, straziati per trascinamento lungo i binari della ferrovia – e nei componimenti della sezione Una scorta nordica, in particolare nelle splendide Terra di nessuno (che adombra, di fronte ai Troubles, la scelta di neutralità e analisi coscienziosa del poeta, compiuta non senza rimorsi e lacerazioni) ed Esca da fuoco, che così si conclude:

Cosa poteva destare una vampa

dai nostri spenti giorni ignei?

Ora ci accovacciamo su tizzoni freddi,

con gli occhi rossi, dopo che il rombo tenue delle fiamme

e i nostri pensieri si acquietano come cenere.

Affrontiamo la sterpaglia sibilante della tundra

con una nuova storia, selce e ferro,

scarti, brandelli, unghia, canino.

I miasmi dei disordini politici, le avvisaglie di guerra civile si stemperano, in parte, e in parte si riflettono in un altro scenario, ritratto in Casa estiva e Serenate: quello della vita familiare del poeta, anch’essa fatta di conflitti, tenerezze e sfide, equilibri precari, riappacificazioni lungo “il bianco, battuto/ sentiero che porta al cuore”. Infine i due componimenti “americani”: all’apparenza avulsi dal contesto, ma che in realtà rappresentano – non solo per la collocazione – l’approdo finale della traversata. Marco Sonzogni compie tutto il viaggio appresso ad Heaney, onorando nella traduzione la sua lingua “materica”, “tecnica” per un peculiare bisogno di precisione: di dire e di incidere, di lasciare un segno netto come un colpo d’arnese. Una lingua che continuamente sboccia (ora anche in italiano) e ha in sé una densità, una stratificazione di significati tale da farne uno strumento insieme raffinato e poderoso.

In Traversare l’inverno Heaney convoca al tribunale della storia tutta l’Irlanda – la verde, la canterina, la laboriosa, l’iniqua, la selvaggia – e dopo averla percorsa, e interrogata, in lungo e in largo, le chiede di svestirsi dei suoi abiti, dell’orgoglio e del pregiudizio, per guardarsi solo con occhi umani, nella nudità della coscienza, e rinascere nuova come una luna appena toccata. Tutte le direttrici della raccolta convergono infine nell’immagine dell’astro, simbolo di un sogno accarezzato per secoli dai folli e diventato realtà grazie a uno sforzo di audacia e perseveranza: un’utopia concreta che autorizza tutti i poeti a sentirsi un po’ profeti.

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