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ESTRATTO, Zoya Barontini, Cronache dalla polvere

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Componendo un mosaic novel ad undici voci tra autori e illustratori, il collettivo Zoya Barontini, dal cognome dell’attivista antifascista, esce per Bompiani con Cronache dalla Polvere, un racconto straordinario di colonialismo italiano, raccontando un pezzo della nostra storia a lungo ignorato e minimizzato.
È il 1936, e l’esercito italiano sotto il regime di Mussolini si appresta a compiere un terribile massacro ai danni della popolazione etiope, nel tentativo di conquistare i territori dell’Abissinia. Ad Addis Abeba, intanto, l’attentato al Viceré Rodolfo Graziani non farà altro che inasprire le posizioni dei due schieramenti, alimentando la reazione violenta delle truppe italiane che porterà all’uccisione di un gran numero di civili.
Cronache dalla Polvere è un libro che riporta i toni leggendari di un continente che ha alle spalle il peso di una grande storia, ricca di misticismo e ritualità, ma che allo stesso tempo si cala nel realismo brutale della guerra. Attraverso l’intreccio incalzante di diverse voci getta un’ombra inquietante sul mito degli “italiani brava gente”, a memoria delle nefandezze compiute in nome di una non sopita ideologia di supremazia razziale, ai danni di una popolazione che tutt’ora non dimentica.
 
Ne pubblichiamo un estratto in anteprima tratto da “Storia di un giovane soldato” di Massimo Gardella.
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È una terra molto antica” aveva detto prima di salire su un camion e proseguire il suo cammino, un passaggio offerto dal Regio Esercito. “C’è anche tanto male qui, per l’accumulo di Storia. Il sangue versato… A volte mi viene un dubbio sacrilego. Mi domando se queste tradizioni che noi definiamo pagane, più antiche della Bibbia e di Cristo ma più vicine alla Creazione, non siano proprio per questo più simili al disegno di Dio. Il suo progetto originario. Quando contemplo questa terra immensa, le sue distese disabitate, senza mulattiere né sentieri, né una sola impronta umana, solo terra, cielo e animali, immagino di avere davanti agli occhi il mondo come era alle sue origini. Splendido da togliere il fiato, e senza di noi. Certi giorni penso che la vera prova della compassione di Dio sia che non ha ancora avuto il cuore di spazzarci via tutti, senza più preoccuparsi di trovare un altro Noè.” Giacomo sbuffò per il caldo e l’indolenza. Sempre più spesso si domandava cosa ci facesse in quella terra dimenticata da Dio e ambita da Mussolini. Prima di partire, il signor Luciano lo aveva rassicurato con la storia di un cliente stimato della drogheria, un pezzo grosso con il fez sempre in testa, grazie al quale lo avrebbe fatto trasferire ad Addis Abeba, terreno fertile per agganciare contatti imprenditoriali. Invece era stato ad Asmara solo due settimane, poi lo avevano spedito a sorvegliare il cantiere perenne e sempre in movimento. In quei mesi dopo l’unica licenza ottenuta aveva partecipato solo a un paio di scontri a fuoco, schermaglie sulla lunga distanza a colpi imprecisi di fucile, più uditi che combattuti davvero. Gli unici che sembravano credere in quell’impresa erano gli ingegneri e gli operai al lavoro per ultimare la strada in tempo da primato. Un colpo di clacson seguito da qualche schiamazzo segnalò l’arrivo dei due fiat spa-38r che li avrebbero trasportati ad Addis Abeba, mentre gli àscari sarebbero rimasti di guardia al campo insieme all’ufficiale medico. Era previsto che tornassero nel giro di pochi giorni, e i ribelli non avevano mostrato interesse verso i lavori stradali. Il rischio che attaccassero il cantiere era remoto.
Valeri salì sul predellino del primo automezzo e controllò che i soldati salissero a bordo. Giacomo si sedette sul secondo camion, spalla contro spalla tra Guglia e Alfonso, un giovane del Cilento che non vedeva l’ora di vedere un po’ d’azione, come ripeteva spesso. Qualche minuto dopo i veicoli partirono traballando sulla strada sterrata. Sarebbero arrivati a destinazione dieci o dodici ore dopo, in piena notte. Giacomo occupava un posto vicino al portellone, mentre si allontanavano scrutò nella polvere l’accampamento che diventava sempre più piccolo e sfuocato, prima di sparire dopo avere imboccato una curva. Gli altri soldati erano piuttosto silenziosi, solo un paio speculavano sull’attentato a Graziani con alterno fervore littorio. A lui non interessava l’ideologia. Era il mondo in cui era cresciuto, tutto qui. E in quel posto desolato persino i campi ghiacciati dietro la cascina di Caselle gli sembravano carichi di una poesia infinita, più del ritratto in bianco e nero di Maria Rosa. Si sentì picchiare di gomito. Guglia gli passò una fiaschetta con una strizzata d’occhio e lui assaggiò l’idromele artigianale distillato dal vecchio indigeno al campo. “L’è ü che ’l ga ’l sègn, un medegòt” aveva detto il bergamasco, intendendo che fosse una specie di guaritore o un mezzo stregone, probabilmente solo un ciarlatano. Il sapore amarognolo del liquore gli fece venire una leggera nausea e rifiutò le successive offerte di Guglielmo, che invece sembrava gustare quella schifezza come fosse acqua di fonte. Per un po’ Giacomo si era baloccato con l’idea di mandare un campione di quella roba al signor Luciano, come ultimo scatto d’orgoglio, proponendolo come liquore tipico locale di importazione. Aveva già un nome per lanciarlo in Italia: Amaro delle Colonie. Esotico e mistico. Peccato che facesse così schifo, e il signor Luciano più che riavvicinarsi lo avrebbe fatto arrestare per tradimento da qualche suo conoscente importante. Provò ad addormentarsi e ci riuscì per miracolo, nonostante scossoni e urti.
 
 
 

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