Mio caro G,
te lo devo dire: questo libro, il nostro Uomo sentimentale, sta diventando un’agonia, un lieve diario d’agonia, avrei detto qualche anno fa scrivendo di altre cose. Non perché sia una lettura noiosa – quando mai Marias? – ma perché diluita e come sdilinquita a causa delle lunghe pause che spezzano – la nostra immagine in frantumi, le parole sfilacciate a sventolare imbianchite su un vecchio filo del bucato – le lunghe pause che spezzano, dicevo… il contatto, nostro, e l’avanzamento del romanzo, tanto che ogni volta mi ci perdo. Agonia come vincolo, dunque: quello che ci imponiamo per resistere agli assalti di questo nostro amore per corrispondenza, l’ago sapiente che cuce insieme le nostre teste – non i corpi: interdetti – e le annoda e le tormenta finendo per intrecciare i vissuti, i pensieri che accadono e trasbordano attraverso quel filo che è ponte, da me a te, da te a me, facendosi respiro e lettera dei nostri discorsi e degli incantamenti. Haunted, siamo – è sempre Marias a usarlo – abitati da fantasmi vociferanti, per dirla in breve, che fanno di tutte le storie una sola: la nostra e di quanti altri? Come in Un cuore così bianco, sul finale… a proposito: ce l’hai tu la mia copia? Qui non c’è: sarà colpa di quel ponte che smaterializza oggetti facendoli riapparire da una casa all’altra, da qui a lì. Rendimela, per favore!
Un vincolo, dicevamo… è così anche per i nostri personaggi, guarda caso – impigliati, marionette aggrovigliate riposte in un cassone, svegliate o ancora sognanti, ma sempre pronte per tornare in scena, memori però del groviglio.
“Adesso che vi sto raccontando questo sogno e questa storia credo di essermi astenuto dal pensare per quattro anni” dice il Leone di Napoli in questo nuovo capitolo. Astenuto dal pensare per quattro anni?! E che cosa è successo?
È entrato in scena Eros, invasivo e travolgente nei suoi intrighi: quelli di Dato che trama perché il protagonista e Natalia Manur caschino nella trappola del desiderio, lui tramite e mano, quella del ruffiano che unisce le due degli amanti, ma una mano indifferente, per come finge di disinteressarsi ai fatti, “minima e avida”. Non ho contato le volte che la parola mano compare nel capitolo; le ho sottolineate e sono tante. E Dato è mani e occhio, “un occhio sporgente e veloce che coincideva con lo spiraglio ogni pochi secondi”.
Succede che, dopo l’apparizione di Natalia Manur che tu hai descritto, i tre diventino inseparabili, che Dato e Natalia assistano assiduamente alle prove del protagonista al teatro della Zarzuela e che passino poi molto tempo insieme, non essendo ancora dichiarata l’attrazione tra il Leone e Natalia, finché – eccolo, mancava lui all’appello – compare Manur, il marito, il banchiere belga. È dopo l’incontro con questo individuo gretto e supponente, dopo la stretta di mano, dopo l’indice puntato di Manur, che il protagonista comprende che deve lasciare libere le briglie della passione: “Fu proprio quell’indice, dritto e un po’ grasso, che mi fece vedere che desideravo al di sopra di ogni cosa annientare quell’uomo e continuare a vedere ogni giorno Natalia Manur”. Un incontro a quattro con i quattro opportunamente ricombinati: Cassio, Desdemona, Iago e Otello. Il tenore è già Cassio; Dato ha nel bisillabico nome la portata eversiva di Iago; Manur sarà Otello? Manur da mani che carezzano insistentemente Natalia, mani che stringono, mani che soffocano… Povera Natalia, se questa è la traccia – ma chissà, lo vedremo – persa nelle sue malinconie; povera disgraziata – e cioè dusdaimon -, Desdemona!
Che il nostro protagonista si porti in camera Natalia l’abbiamo già visto in un capitolo precedente: una stanza d’albergo un po’ sordida, a dire la verità, o almeno è l’impressione che ha fatto a me. Qui sì che c’è differenza tra la storia shakespeariana e quella di Marias; d’altronde lo faceva anche il Bardo: attingeva alle fonti e le manipolava (ancora le mani), le contaminava – in questo caso è quello che ha fatto con Giraldi Cinzio. Ma sto immaginando e chissà, forse prendendo un granchio. Te l’ho già detto, non ho letto il resto e quindi non ridere se mi sbaglio.
C’è poi tutta la questione del pensare lasciata in sospeso: “Pensavo tanto allora che finii per essere stufo di me stesso”, afferma il tenore. Mi ricorda una cosa, sai? E sì, è proprio il tuo libro, Storia dell’uno e dell’altro. Perché forse se ci si stufa di se stessi si rischia di non trovarsi più. Nella tua Storia i personaggi – quanti te ne frullano in testa, quanti ne hai dentro? -, nello specifico quello che tu chiami “me stesso” si rincorre invano: “Certe volte quando torno a casa è talmente tanta la solitudine che non trovo neanche me stesso. Accendo la luce e niente, non ci sono, non sono tornato, non so quando tornerò. Prendo un libro, mi siedo davanti alla tv, e giunge la notte e sento il cancelletto del cortile sbattere e mi sporgo dalla finestra a guardare e certe volte mi vedo, sono lì che fumo e mi affretto a raggiungermi e afferro il giaccone e sbatto la porta e scendo le scale di corsa mentre io salgo con l’ascensore, arrivo al pianerottolo, apro la porta di casa, accendo la luce e niente, non ci sono, non sono tornato, non so quando tornerò”. La solitudine: quella del cantante o dei commessi viaggiatori, la nostra, quella di tutti. Come dirlo meglio, strappando anche un sorriso, amaro certo, ma vero?
E il marionettista? Abbiamo detto che questi personaggi che non pensano, le marionette, devono per forza concedersi al pensiero di un altro e farsi trascinare. Nel caso de L’uomo sentimentale hai ventilato l’ipotesi, elettrizzante, di Marias – lui o qualcuno/qualcosa che lo trascende – che nel tempo cuce le sue storie o le suggestioni che viaggiano; nel caso di Storia dell’uno e dell’altro il narratore è direttamente in scena: interagisce, si confonde con l’uno, l’altro, Maria (senza esse) e poi X e Y, in una girandola insensata eppure perfettamente plausibile: il vortice della vita, il risucchio dell’identità, il molteplice che si moltiplica. Io è un altro. Non vado oltre, ma ti dico: quanto mi sei mancato! Mi è mancato leggerti; e la consapevolezza è arrivata solo rileggendoti.
Ho tralasciato molti punti del capitolo che mi spettava, mi sono fatta abitare dai miei fantasmi; scriviamoci più spesso, ti prego.
Tua, R.